Pedale Tricolore: il Giro dell'Appennino del 1972
Agli albori delle competizioni ciclistiche italiane Genova ebbe l’onore di ospitare – era il 1886 – la seconda edizione del campionato nazionale per biciclisti e triciclisti. Le gare su pista vennero disputate sulla spianata dell’Acquasola, in centro città, mentre per la prova su strada (il cosiddetto “campionato italiano di resistenza”) ci si trasferì a Busalla, nell’entroterra genovese. Tredici concorrenti per centoventi chilometri di gara dalla località della Valle Scrivia sino a Santa Giulietta – nell’Oltrepò Pavese – e ritorno, passando per Serravalle, Voghera e Casteggio.
Dopo cinque ore e 48 minuti fu Geo Davidson – lo “scozzese di Liguria” che sarà futuro presidente del Genoa e, poi, della Federazione Ciclistica Italiana – a precedere in volata il forte Giuseppe Loretz, campione nazionale uscente.
Fu un successo quella manifestazione e Genova, negli anni a seguire, ospitò nuovamente competizioni a carattere nazionale. Come nel 1892 e ancora l’anno successivo.
Nel 1893 si registrò un fatto curioso: al momento della partenza della gara per l’assegnazione del titolo di campione italiano su pista i corridori si presentarono in abiti borghesi e senza bicicletta. Fu una specie di sciopero motivato – pare – dall’asserita insicurezza del terreno di gara.
Si replicò dieci anni dopo, nel nuovo velodromo in legno (337 metri di sviluppo) costruito nella spianata del Bisagno. Furono giorni di fine giugno intensi, con grande partecipazione di pubblico incoraggiato anche dal fatto che i prezzi erano gli stessi di dieci anni prima! Alle gare di velocità e resistenza (così venivano chiamate) seguì, come gran finale, una spettacolare gara di tandem.
“Che tempi!”, avrebbe esclamato Gilberto Govi (ma in senso positivo, s’intende).
Poi, dopo quegli anni ruggenti (ma anche nel calcio era andata così, con il Genoa grande protagonista nei primi campionati), la Superba dovette cedere il passo ad altri palcoscenici.
Ci fu, è vero, un campionato nazionale di ciclocampestre – negli anni Trenta, il periodo d’oro del genovese Luigi Ferrando, cinque volte campione italiano della specialità – ma ne dovette passare del tempo, prima che la Lanterna rivedesse il Tricolore.
Nel 1972 il Giro dell’Appennino (che in altre occasioni era stato inserito tra
le prove per l’assegnazione del titolo tricolore, sia individuale che a
squadre) ha finalmente l’onore di ospitare la prova unica valida per
l’assegnazione del campionato italiano professionisti. E’ la trentatreesima
edizione della corsa ideata nel 1934 da Luigìn Ghiglione ed organizzata dall’Unione
Sportiva Pontedecimo. È la corsa della Bocchetta, la salita che Adriano De Zan
definiva “la più dura salita inserita in una corsa in linea italiana”,
sulla quale si involò Fausto Coppi nel 1955 per cogliere la sua ultima vittoria
per distacco.
I campioni nostrani sono usciti malconci dal Giro d’Italia e ci si aspetta da
loro una prova d’orgoglio:ci sono tutti a Pontedecimo quel 25 giugno.
Felice Gimondi e Gianni Motta, Michele Dancelli e Italio Zilioli, Franco
Bitossi e Franco Balmamion: i piu bei nomi di quel ciclismo si danno
appuntamento sulle strade dell’Appennino. Bitossi è il campione uscente che,
dopo i successi dei due anni precedenti, cerca il prestigioso tris nel
campionato nazionale.
Ci sono anche il vecchio Aldo Moser e Silvano Schiavon. E Miro Panizza, reduce
da un brillante quinto posto al Giro e, ancora, il ligure Giuseppe Perletto,
giovane scalatore che cerca la gloria sulle strade della sua regione. Settanta
partenti per affrontare i 248 chilometri del percorso tra Genova ed il basso
Piemonte, con le ascese dei Giovi, della Castagnola da Borgo Fornari e della
Scoffera prima di affrontare gli ultimi, splendidi cinquanta chilometri
caratterizzati dall’ascesa della Bocchetta, da un nuovo passaggio sulla
Castagnola (da Voltaggio, stavolta) e dall’ultimo dente di giornata, i Giovi
dal versante di Busalla.
È una fuga di Luciano Armani a caratterizzare la prima parte della corsa. Il
portacolori della Scic si lancia all’attacco subito dopo la partenza. Il suo
vantaggio cresce a vista d’occhio. Solo Enrico Guadrini si lancia al suo
inseguimento e lo raggiunge a Carrosio, in Val Lemme, dopo il primo passaggio
sulla Castagnola. La fuga si conclude a Serravalle, dopo tre ore di corsa. I
corridori risalgono la Valle Scrivia senza sussulti. In vista della Scoffera
allunga Schiavon, ripreso da Donato Giuliani e da Mario Anni, che passa per
primo in vetta, ma come inizia la lunga discesa su Genova il terzetto è
raggiunto.
Giacinto Santambrogio scatta dopo il rifornimento di Sampierdarena, in Via Fillak,
proprio sotto il ponte Morandi, e attacca la Bocchetta con un esiguo vantaggio
sul gruppo. Panizza si esalta sulle prime dure rampe della salita ed opera la
selezione. Motta non trova il passo giusto e anche Zilioli fatica. I primi
chilometri dell’ascesa sono i più temibili e quattro corridori si trovano in
vantaggio a metà salita: oltre a Panizza, ci sono Gimondi, Fabrizio Fabbri e un
sorprendente Mario Lanzafame.
Quando De Zan apre la telecronaca diretta le telecamere mobili – per la prima
volta al Giro dell’Appennino – inquadrano un uomo solo al comando, poco prima
dello scollinamento. È Fabbri che lassù, ai 772 metri del culmine della “salita
delle Streghe”, davanti al cippo del Campionissimo precede di pochi secondi
Panizza. Gimondi è terzo a 17”. Perletto, incoraggiato in dialetto dalla sua
gente, è quarto insieme a Lanzafame, che sta disputando la sua migliore gara da
professionista. I due, a 28 secondi, precedono la coppia della Filotex con
Bitossi e Giovanni Cavalcanti, attardati di 39 secondi. Michele Dancelli,
rabbioso, insegue da solo a cinquanta secondi. Dopo di lui Schiavon a
cinquantacinque e Wilmo Francioni a un minuto e quindici.
Nella discesa su Voltaggio Perletto cade, vola in un fosso e deve abbandonare i
sogni di gloria. Bitossi e Dancelli compiono vere e proprie acrobazie e si
riportano sui primi in vista del paese degli amaretti. Sono quindi in sette ad
imboccare la salita della Castagnola. Fabbri – secondo all’arrivo l’anno
precedente -è in gran spolvero: cerca di andarsene, invano, ma è comunque il
primo a transitare in vetta e ad affrontare la discesa verso Borgo Fornari. Ci
sono un paio di brutte curve e una di esse è fatale all’intraprendente ragazzo
toscano. Cade, rompe la bicicletta e anche per lui svanisce il sogno tricolore.
Ora sono rimasti in sei a giocarsi la vittoria: tre vecchi leoni (Gimondi,
Bitossi, Dancelli), un Panizza mai domo e due gregari (Lanzafame e Cavalcanti).
Ci sono ancora i Giovi, dal versante di Busalla (i “Giovetti), e Dancelli non
si lascia sfuggire l’ultima occasione. Michele, che ha già vinto tre di Giri
dell’Appennino, scatta verso la cima e si lancia in discesa con un margine di
vantaggio di pochi secondi sugli inseguitori. Armani, che dopo la lunga fuga di
120 chilometri si è ritirato e commenta la corsa con De Zan, giura sul buon
esito della sortita. Ma il coraggio del bresciano non è premiato: gli altri non
ci stanno e si dannano l’anima per riprenderlo. E ci riescono. Sul falsopiano
di Mignanego, al termine della discesa, sono ancora insieme.
Il tempo di capire le intenzioni dei compagni di fuga e Gimondi tenta
l’allungo. È ancora Dancelli a riportarsi su di lui e ad annullare il
tentativo. Poi Felice ci riprova. Gli altri si guardano: chi deve scattare? Non
certo Dancelli, che è stato appena ripreso, ma nemmeno i due della Filotex si
muovono. È sufficiente un attimo di indecisione ed il bergamasco scompare
dietro una curva, rapportone e testa bassa: mancano poco più di cinque
chilometri al traguardo di Pontedecimo.
Felice insiste nella sua azione ed in poco tempo il vantaggio cresce a vista
d’occhio. Ormai è fatta ed il campione bergamasco si presenta tutto solo sul
traguardo di Piazza Arimondi, bissando il successo di tre anni prima.
I battuti arrivano staccati di quasi un minuto: Bitossi precede in volata
Dancelli e Panizza e deve rinunciare (ma l’appuntamento è solo rimandato) alla
terza maglia tricolore. Lo sfortunato Fabbri conclude al decimo posto e grande
è il suo rammarico.
L’Appennino, ancora una volta, ha dimostrato di essere una corsa dura e
selettiva: solo in trenta terminano la prova.
E mentre Gimondi indossa la maglia tricolore la seconda della sua carriera,
dopo quella conquistata nel 1968 al Giro di Romagna) non manca una nota
polemica ad infiammare il dopocorsa.
È Dancelli ad accendere la miccia: toccava a Bitossi andare a riprendere
Gimondi, rimarca il bresciano, perché poteva contare sull’aiuto di Cavalcanti,
suo gregario alla Filotex. E si capisce che il comportamento del toscano, quel
giorno, non gli è proprio andato a genio.
Gran bella edizione, quella campionato italiano del 1972,
con un signor podio che rappresenta la sintesi di un epoca d’oro del nostro
ciclismo. Gimondi sarebbe andato al Tour, da lì a pochi giorni, e avrebbe
conquistato il secondo posto, alle spalle di Eddy Merckx.
Patron Ghiglione può ritenersi soddisfatto e pazienza se nel trambusto del
dopocorsa qualcuno gli ha sfilato il portafoglio. Il suo Giro ha regalato agli
appassionati una grande giornata di ciclismo e un vincitore che va ad
impreziosire un albo d’oro di assoluto prestigio.
E anche Fausto, quella sera, avrà senz’altro apprezzato.
Mario Silvano ( ww.ilciclismo.it, 2020)
Le foto della corsa sono tratte dal libro "Il Giro dell'Appennino, una leggenda che si rinnova" di Giorgio Delfino e Domenico Massa , Nuova editrice Genovese 1995
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