16 Agosto 2019: ricordando Felice
Avevo nove anni quando, al Giro dell’Appennino del 1967, lo vidi per la prima volta.
Era il primo ottobre : una giornata piovosa, nebbia
sulla Bocchetta.
Ricordo che, nell’attesa del passaggio della corsa ( in località Baracche, un breve falsopiano prima
degli ultimi tornanti), i miei genitori
conversavano con una coppia di Nizza Monferrato: la signora era
tifosissima di Gimondi ed era certa che Felice avrebbe trionfato.
Quando i corridori
sbucarono dalla nebbia, Gimondi era alla
ruota di Dancelli, ed è un ricordo ancora vivo a distanza di oltre mezzo secolo.
“Ha visto Gimondi!”, disse la signora, certa del successo
del campione bergamasco, alla sua prima
partecipazione al Giro dell’Appennino e che godeva dei favori del pronostico.
Quella volta, però, Felice non riuscì a reagire allo scatto
di Dancelli che si involò verso il
traguardo di Pontedecimo : Michele si duole ancora oggi che il giorno
dopo i giornali dedicarono più spazio all’imprevista sconfitta del campione della Salvarani rispetto alla
vittoria in solitaria del bresciano.
La cosa non deve stupire: Gimondi era il campione italiano
più amato : giovane neoprofessionista , solo due anni prima, a 22 anni, aveva trionfato
al Tour de France , l’anno successivo si era aggiudicato tre grandi classiche (
Parigi- Roubaix, Parigi- Bruxelles e Giro di Lombardia), e nella primavera del
1967 si era imposto nel Giro d’Italia .
La sua era una
vittoria attesa ed annunciata: nell’edizione del cinquantenario strappò la maglia
rosa ad Anquetil grazie ad una fuga nella Trento- Tirano, ed alla “ copertura”
offerta dagli altri italiani: quella “Santa Alleanza” che all’epoca fece
discutere
Campione completo, come si diceva all’epoca; passista -scalatore
capace, all’occorrenza, di imporsi in
volate ristrette. Adatto sia ai grandi Giri che alle corse di un giorno ed
apprezzato da subito anche all’estero.
Poi piaceva il suo stile misurato e quella serietà che, a sentirlo parlare al microfono di
DeZan , lo faceva sembrare un maturo signore
più che un ragazzo di venticinque anni .
Nella primavera del 1968, dopo poco più. di tre stagioni tra i
professionisti, il suo palmares è quanto
mai ricco. Non poteva che essere impreziosito da ulteriori successi, in Italia
e all’estero.
Ma in quell’anno Eddy
Merckx , imponendosi al Giro, dimostrò di essere anche uomo da corse a tappe : l’antagonismo nacque allora e Felice fu il
naturale designato , considerato che
solo lui aveva le caratteristiche – umane e non solo tecniche- per interpretare quel ruolo.
Per Gimondi si apre il secondo capitolo della sua carriera.
E sa interpretarlo al meglio, nella consapevolezza che il belga e’ si troppo forte, ma che non bisogna mollare
mai e che, se non ci fosse Eddy, spetterebbe a Felice il primato del ciclismo mondiale .
Al Giro del 69 il
belga è escluso dalla corsa per doping e Gimondi , già allora secondo in classifica ,si aggiudica il successo finale: come scrisse Ormezzano, non era sua
colpa se il secondo fu Michelotto.
Attraversa anche momenti difficili, il bergamasco.
Nel 1970 patisce l’arrivo alla Salvarani di Gianni Motta ( proprio il rivale che gli era stato contrapposto
negli anni precedenti) e lo considera uno sgarbo, una mancanza di fiducia nei
suoi confronti Al Giro del 71 delude, pur
in assenza di Merckx. Eppure non si
abbatte: è medaglia d’argento al mondiale di Mendrisio, alle spalle di Eddy
e non cedendo un metro al belga, in una
domenica di inizio settembre e l’anno successivo è secondo al Tour, ovviamente
alle spalle di quello che è ormai
definito il Cannibale
Ma è nel 1973 che la
sua tenacia viene premiata. Già al Giro
d’Italia ha la soddisfazione di battere Eddy nella cronometro di Forte dei Marmi ed al Momdiale di Barcellona conquista
la maglia iridata, in quella volata a quattro ( con Maertens, Merckx e
Ocana) che a rivederla oggi fa venire
ancora i brividi. Quella vittoria sembra il coronamento di una carriera :
Gimondi ha 31 anni , è un “senatore “
ormai, e sul palcoscenico del ciclismo
si affacciano giovani intraprendenti quali Moser, Battaglin e Baronchelli.
Ma Gimondi è capace
ancora di stupire: vince la Milano- Sanremo
in solitaria e anche se Merckx è
assente la sua impresa merita solo applausi. Nel Giro dello stesso anno, uno
dei più duri e spettacolari del dopoguerra, è ancora terzo alle spalle di
Merckx e Baronchelli.
Nel 1975 corre il suo ultimo Tour, concludendo al settimo posto nella generale.
Sembra che sia ormai vicino il momento di appendere le scarpette al
chiodo ed invece, nel Giro del 1976, conquista inaspettatamente la maglia rosa
e l’Italia del pedale si entusiasma.
.E’ vittima di una caduta
nella tappa di Longarone, ma il gruppo rallenta e lo aspetta,un gesto di rispetto e di riguardo
. Alle Torri del Vajolet perde la maglia rosa a favore di De Mujnck e la bella favola sembra
svanire.
Si decide tutto la mattina di sabato12 Giugno, nella
cronometro della Brianza. Gimondi è galvanizzato dalla vittoria in volata
ottenuta il giorno prima nella sua Bergamo, e De Mujnck è malconcio per i postumi di una
caduta
Felice è sospinto dall’affetto e dall’entusiasmo di tutti,
recupera lo svantaggio ed il Giro è suo.
Anche Merckx è battuto, finalmente, in un grande Giro, ed il
belga , stanco e con problemi al soprasella, conclude la corsa rendendo
onore con la sua presenza alla vittoria del rivale di sempre
“ Miracolo a Milano” titola la Gazzetta per l’epilogo di una carriera esemplare
Da lì a poco avrebbe stupito ancora, conquistando la sua
seconda vittoria nella Parigi Bruxelles,
Vera e propria icona dello sport a cavallo tra gli anni 60 e
70, Gimondi ha attraversato tre lustri
della storia d’Italia: la sua è stata
una presenza rassicurante, a fronte dei cambiamenti che interessavano il Paese.
Campione di serietà, di costanza e di sacrificio , con uno stile di vita esemplare:
l’anedottica sul suo conto ci racconta
che mai si era concesso il lusso di una serata in pizzeria durante la
sua carriera!
Era un diesel, Gimondi, che faceva della regolarità la sua
rama vincente: un artigiano della bicicletta, come si era recentemente definito. Non aveva l’inventiva di Motta, né lo spirito corsaro di
Dancelli, né , ancora, lo scatto di Bitossi eppure era sempre presente
all’appello.
Con l’avanzare degli anni appariva persino meno serioso ,regalando battute sui
suoi trascorsi ciclistici e ridendo di
gusto – lui, il ragazzo dal sorriso gentile- nel rievocare gli episodi più significativi della sua carriera.
E’ stato scritto che Gimondi era una sorta di cartolina di
un monumento celebre, famoso in tutto il mondo: ed infatti era proprio cosi, perché anche chi non si interessava di
ciclismo, ben sapeva chi fosse.
Anche a distanza di quarant’anni dal suo ritiro dalle corse,
non era infrequente sentirlo
citare in occasione di
conversazioni aventi ad oggetto le corse odierne : “ Eh, se ci fosse stato
Gimondi!”….
Noi, della generazione degli anni 50, abbiamo appreso
increduli la notizia della sua scomparsa perché
svanisce un pezzo della nostra infanzia e della nostra adolescenza,
quando non esistevano i “social” e ci
si doveva accontentare della lettura dei giornali e della dirette televisive in bianco e nero. E se i campioni li vedevi
dal vivo sembrava un sogno
Come quando, al Giro
del 1976, ero sul traguardo di Varazze, il giorno che vinse Moser. Ricordo Felice
che , sceso dal palco, si faceva largo
con la sua “Bianchi” tra la folla in
delirio. La fiammante maglia rosa rendeva ancora più intenso il colorito
della sua pelle e pensai che Gianni Brera ci aveva proprio azzeccato coniando l’appellativo di Nuvola
Rossa
O, ancora, al Giro dell’Appennino del 1969 in cima al Passo
della Bocchetta, in una assolata
domenica d’agosto. Gimondi scollinò al
secondo posto , alle spalle di De Prà, tra un entusiasmo indescrivibile e andando a conquistare
il suo primo successo a Pontedecimo.
Passò accanto alla stele di Coppi , e quella volta il
sorriso di Fausto, scolpito nel bronzo,
sembrò che fosse dedicato al campione di Sedrina:” Bravo, Felice, continua
cosi!” .
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