Ventimila pietre sotto le ruote: la vera storia di Giulio "Jules " Rossi
Sbaglia chi pensa che per trovare luoghi non toccati dal
traffico, né violati da viadotti autostradali o da linee ferroviarie ad alta
velocità sia necessario andare chissà dove.
L'alta valle del torrente Ceno, in provincia di Parma, è uno di quei posti.
Se non fosse per lo stabilimento dell'acqua minerale – unico insediamento
industriale che turba quell'atmosfera incontaminata - sembrerebbe di tornare
indietro di cent'anni.
Piero, che ha scelto di vivere lassù, non riesce neppure a
telefonarmi col cellulare perché - per usare un termine dei nostri giorni - «a
Masanti non c'è campo».
E neppure riesce a vedere tutti i canali televisivi; ma credo, conoscendolo,
che non gli dispiaccia troppo perdere il Grande Fratello e XFactor...
Avevo scoperto quei posti più di trent'anni fa, e la prima
volta c'ero andato in corriera, partendo da Chiavari. Un viaggio interminabile,
lungo i tornanti del Bocco:
come se non bastasse, bisognava cambiare mezzo a Bedonia per l'ultimo balzo,
oltre il passo di Montevacà.
Guido aveva una casa lassù e "andare a Masanti", all'epoca,
significava ritrovarsi con amici e passare qualche giorno all'insegna di
mangiate e bevute come solo a quell'età si riesce a fare.
E poi scherzi, partite a pallone e tanti aneddoti che ricordiamo ancora oggi a
distanza di troppi lustri.
Masanti, Ponteceno, Illica: borghi quasi disabitati che si
popolavano d'estate (me ne accorgevo, mentre ero lassù) quando parecchi
emigranti tornavano ai loro paesi d'origine.
Furono in tanti, infatti, ad abbandonare quelle montagne alla ricerca di un
lavoro all'estero.
Stati Uniti, Galles e Francia furono le mete predilette.
La Francia, soprattutto.
Molti di loro facevano il mestiere di scaldino, che consisteva nel riempire le
caldaie a carbone dei palazzi e degli edifici pubblici parigini durante il
periodo invernale. Fu, quello, un lavoro particolarmente apprezzato dagli
emigranti (come anche il lavoro di gessino), perché si trattava di un mestiere
stagionale che permetteva soggiorni estivi al paese d'origine che rimase, per
diverse generazioni, il punto di riferimento centrale della loro vita.
Alcuni, più fantasiosi, si improvvisarono ammaestratori di orsi
("orsanti", erano chiamati) e ci fu chi, nel suo girovagare, si
spinse ad est, fino a raggiungere San Pietroburgo, la corte degli Zar.
I più lasciavano quelle valli per raggiungere amici e parenti già da tempo all'estero,
sapendo quello che attendeva loro e sperando che il soggiorno forzato lontano
dalla patria fosse solo una tappa di un percorso che si sarebbe concluso con il
rientro.
Altri, ancora bambini, salutavano quei posti col groppo in gola e non sapevano
cosa avrebbero fatto da grande.
Giulio Rossi, uno dei tanti, ignorava che sarebbe diventato
un campione delle due ruote.
Era nato nel 1914 in una frazione dell'allora comune di
Boccolo dei Tassi.
O meglio, in una minuscola località – Acquanera - situata nel territorio di Santa Giustina,
poco meno di mille metri di altezza, quasi al confine con la provincia di
Piacenza.
Santa Giustina: poche case, una chiesa di fine settecento e un cimitero quasi
monumentale per quei posti, nella valle del torrente Lecca, all'ombra del monte
Ragola.
Il padre era morto durante la Prima Guerra Mondiale e Giulio andò in Francia
ancora bambino. Scelse la bicicletta, prima come passione e poi come lavoro.
Come Eugene Garin prima di lui o come Carmine Preziosi molti anni dopo, solo
per citare alcuni dei più noti ciclisti "migranti".
Non passò inosservato tra gli amateurs e
all'esordio nel professionismo, nel 1935, colse alcuni piazzamenti di rilievo.
Avrebbe dovuto aspettare l'anno seguente per cogliere i primi successi
significativi, come l'affermazione nella Parigi-Saint Etienne, una mini corsa a
tappe (due giorni in tutto) che aveva visto il successo negli anni precedenti
di gente importante, come Roger Lapebie.
Nella Francia del Fronte Popolare di Leon Blum, della
settimana delle quaranta ore e delle ferie pagate, Giulio inizia raccogliere i
frutti della sua fatica.
Ci sono molti italiani in Francia, in quegli anni: non solo emigranti, ma anche
esuli politici antifascisti, e non mancano neppure le spie del regime di
Mussolini.
Ogni italiano è visto con sospetto, ma Rossi non fatica ad imporsi tra gli
appassionati d'oltralpe e, pur mantenendo la cittadinanza d'origine, diventa
per tutti Jules.
È secondo alla Bordeaux-Parigi, in quel 1936, e si piazza al quinto posto nella
Parigi-Roubaix, la corsa che lo avrebbe consegnato alla leggenda.
Fu nel giorno di Pasqua dell'anno successivo, infatti, che
Rossi realizzò il suo capolavoro.
Nella trentaseiesima edizione della Roubaix, le speranze
italiane erano affidate a Cimatti, terzo classificato nella Sanremo (nella
quale lo stesso Rossi si era reso protagonista di una fuga da lontano) e
vincitore di una tappa alla Parigi-Nizza.
I favoriti erano i belgi. Dovevano vendicare l'affronto subito l'anno prima,
quando a Romano Maes, che aveva battuto allo sprint il transalpino Speicher,
venne scippata la vittoria da un giudice d'arrivo troppo casalingo.
Fu una fuga di un gruppetto di ardimentosi (tra i quali Mithouard, Archambaud e
Danneels) a provocare la prima selezione. A colmare lo svantaggio di alcuni
minuti furono i fiamminghi.
Ad Arras pioveva a dirotto e Felicién Vervaecke partì in solitudine restando in
fuga una ventina di chilometri, prima di essere raggiunto – tra gli altri - da
Rossi, Danneels e Marcel Kint.
Rossi sapeva che in un arrivo in volata coi belgi avrebbe rischiato grosso e
impresse un forcing notevole perché – l'avrebbe confessato anni dopo - voleva
vincere ad ogni costo.
Quando mancavano dieci chilometri al traguardo l'italiano scattò, ma – come
sarebbe accaduto a Cancellara molti anni dopo - un passaggio a livello chiuso
stroncò la sua iniziativa.
Danneels, belga particolarmente temuto e attivo sin dalle prime fasi della
gara, perse terreno (cosi come Kint) e si presentarono in sei alla periferia di
Roubaix.
Per Rossi sembrava che non ci fossero speranze. Ma la Roubaix, si sa, non è
detto che premi i più veloci, ma chi ha saputo resistere meglio al ritmo, agli
scossoni, alle cadute, alle forature.
Rossi, faccia da emigrante, partì lungo e per gli avversari non ci furono
speranze .
A rivedere oggi le foto in bianco e nero di quella volata (l'arrivo era in
Avenue de Villas) e i pochi filmati dell'epoca (tantissima gente sulle strade!),
sembra quasi una vittoria per distacco, un allungo imperioso a cui gli
avversari non seppero resistere.
Fu tanta la sorpresa per la vittoria di quell'italiano un po' francese, che il
direttore della fanfara incaricata di eseguire l'inno nazionale si accorse di
non avere lo spartito della Marcia Reale.
Venne improvvisata lì per lì una sorta di marcetta che provocò i fischi dei
sostenitori di Giulio, il quale fu portato in trionfo al grido di «viva
l'Italia!».
Se si inneggiasse all'Italia del Duce o a quella dei fratelli Rosselli (che
sarebbero stati assassinati da lì a poco) non lo sappiamo: Giulio Rossi, di
certo, era figlio di quell'Italia contadina che era stata costretta a cercare
fortuna altrove.
Ma non fu un episodio isolato perché Rossi, l'anno successivo, si sarebbe
imposto anche nella Parigi-Tours, aggiudicandosi il nastro giallo (trofeo
riservato a chi stabiliva la media record in quella corsa) ed inaugurando ,in
quel 1938, una stagione di successi azzurri indimenticabili nella terra dei
galletti: la Nazionale di calcio si sarebbe aggiudicata i Mondiali e, nel
torrido luglio francese, Gino Bartali si sarebbe imposto da par suo nella
Grande Boucle.
Uomo da classiche, non ebbe fortuna nei Grandi Giri.
Nella corsa rosa del '35 e del '36 fu costretto al ritiro, e analoga sorte lo
segnò nelle due partecipazioni al Tour con la maglia della Nazionale italiana
(perché Giulio, in fondo, è sempre rimasto un azzurro).
Fu proprio lui a cadere insieme a Gino Bartali nelle acque del torrente Colau,
al Tour del '37, e l'anno successivo non potè neppure gustarsi il successo
finale di Ginettaccio, pur avendo avuto la soddisfazione di aggiudicarsi una
tappa.
Corridore da corse di un giorno, si è detto.
Vinse due edizioni della Parigi-Reims (nel '41 e nel '43) e rischiò un
clamoroso bis nella Roubaix del '44, disputata nella Francia occupata dai
nazisti, alla vigilia dello sbarco in Normandia – era la domenica delle palme,
quella volta - quando si era appena consumato il massacro di Ascq.
Quel giorno, sulla pista di Roubaix, dove echeggiavano ancora le raffiche di
mitra che poco lontano da lì avevano fatto strage di ottantasei civili vittime
della rappresaglia, si presentarono in dieci e Rossi era il favorito: fu
battuto di pochissimo dal belga De Simpelaere, rientrato nel gruppetto dei
migliori grazie al solito passaggio a livello nel finale, che aveva costretto
allo stop la pattuglia di fuggitivi.
Singolare fu poi il suo rapporto con il Gran Premio delle
Nazioni.
Vinse l'edizione del '41 disputatasi nel territorio della Francia libera
(quella di Vichy e del maresciallo Petain, ma nello stesso anno ci fu pure
quella nel territorio occupato) e fu terzo nell'edizione dell'anno successivo,
disputatasi invece nella Francia occupata.
Altri due secondi posti - nel '43 e nel '44 - suggellarono la sua
partecipazione, negli anni della guerra, nella classica prova contre-la-montre.
Avrebbe corso fino al 1950, fregiandosi del titolo di essere stato il primo
italiano a vincere nell'Inferno del Nord (e, ma lo si dimentica, alla Parigi–Tours
e al Gran Premio delle Nazioni).
Dopo di lui sarebbero stati Serse e Fausto Coppi a seguire per primi le sue
orme sul pavè.
Apprezzato e conosciuto più in Francia che in Italia, se n'è
andato troppo presto - a poco più di cinquant'anni - il 30 giugno del 1968,
proprio alla vigilia di un viaggio nella sua terra d'origine.
Forse meditava un ritorno, come tanti suoi compaesani: dalla trafficata
periferia di Parigi al silenzio delle valli del Ceno e del Lecca.
Per una di quelle incredibili coincidenze che segnano l'esistenza umana, quello
stesso giorno il Tour faceva tappa nella "sua" Roubaix; chissà se
Giulio riuscì a vedere in televisione la vittoria di Walter Godefroot e a
rivivere per l'ultima volta le sue fantastiche galoppate sul pavé.
La morte prematura gli ha risparmiato una delusione,
evitandogli di apprendere (è cosa nota solo da pochi anni) che il primo
italiano a trionfare nell'Inferno del Nord fu in realtà Maurice Garin, lo
spazzacamino valdostano che all'epoca dei successi consecutivi del 1897 e 1898
nella "Pascale" era ancora suddito di sua maestà il Re a tutti gli
effetti.
Per noi, che siamo cresciuti ignorando questa circostanza,
resta sempre Rossi il primo azzurro vincitore della Roubaix, perché l'abbiamo
imparato da bambini, sfogliando quell'Annuario della Gazzetta dello Sport che
ancora oggi conserviamo come una reliquia.
Se passate dalle parti di Bardi, e chiedete notizie di Giulio Rossi, qualcuno
vi indicherà la casa dove ha visto la luce e sulla quale è stata recentemente
apposta una lapide che lo ricorda:
"Giulio Rossi, il primo italiano a vincere la
Parigi-Roubaix"
Maurice Garin sorriderebbe e, ne siamo certi, non se la
sentirebbe di contestare.
( www.cicloweb.it. 2009)
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