Lo Sceriffo di Compiano


                                                    









 

Tutto cominciò al Trofeo Pantalica, nel marzo del '77. Francesco Moser, impegnato a disputare la volata, venne ostacolato da una moto. Beppe Saronni, diciannovenne neoprofessionista, ne approfittò e si aggiudicò la corsa. Era quasi uno sconosciuto, quel ciclista con la maglia della Scic, ma la sconfitta fece infuriare il trentino.
Lui, campione già affermato e con un gran sèguito di tifosi, neppure poteva immaginare, in quel pomeriggio di primavera, quante altre volte avrebbe dovuto affilare le ruote con l'impertinente ragazzino di Novara.
Da allora fu un duello ad ogni occasione, e non bastò correre insieme un Trofeo Baracchi per diventare amici.
Non a caso proprio nel 1977 uscì un film (I duellanti, il primo film di Ridley Scott) la cui vicenda, con un po' di fantasia e qualche aggiustamento, poteva essere ambientata nel mondo del ciclismo, con la coppia dei campioni del pedale al posto dei due tenenti degli Ussari, protagonisti del romanzo di Conrad.

Fu nel 1981, tuttavia, che la rivalità tra i due toccò il punto più alto.
C'era gia stato un assaggio alla Tirreno Adriatico e soprattutto alla Sanremo quando, sul Poggio, Beppe e Cecco si fecero la guerra, impegnati a controllarsi l'un l'altro nel tentativo - riuscito - di non far vincere la Classicissima al rivale.
Nulla rispetto a quello che successe a Compiano dove, quell'anno, si sarebbe disputata la prova unica per l'assegnazione della maglia tricolore.




Un circuito di dodici chilometri e mezzo, da ripetere diciannove volte, nella valle del Taro.
Una salita con tre strappi e due falsopiani e una discesa insidiosa con curve e controcurve. Pochissima pianura, appena quella necessaria tra la fine della discesa e l'inizio della salita, all'ombra del castello del paese parmense, tra Bedonia e Borgotaro, nei luoghi cari a Bruno Raschi.
Oggi Compiano è inserito nella lista dei borghi più belli d'Italia, ma all'epoca era più noto per essere il feudo di Giovanni Marcora, il ministro democristiano che da quelle parti aveva un allevamento di bestiame.

Il percorso suscitò pareri contrastanti: Saronni, campione italiano in carica, voleva riconfermarsi, ma quell'anello - troppo simile ad una kermesse - non lo convinceva fino in fondo, e la salita, a sentire Beppe, non era neppure troppo dura.
Moser, invece, si lanciò in giudizi lusinghieri: era impegnativo il giusto – diceva nei commenti della vigilia - e prevedeva un arrivo ristretto a pochi corridori.
Anche a Battaglin (fresco vincitore del Giro) il circuito piaceva: peccato che il veneto avesse la tracheite e, chiamandosi fuori per il successo finale, indicasse Saronni e Baronchelli tra i favoriti.
Miro Panizza era il più arrabbiato di tutti: lo aveva provato il circuito, ed in discesa era quasi uscito di strada, per colpa di quella ghiaietta che rischiava di complicare le cose.

Arrivammo in cinquantamila, quella domenica di fine giugno, per assistere all'ennesima sfida tra Moser e Saronni.
I tifosi dei due contendenti – e non solo loro - si attrezzarono lungo il percorso con barbecue, damigiane di vino e televisori portatili per assistere all'evento.
Per un giorno almeno non avremmo pensato all'inflazione a due cifre, a Licio Gelli, alla P2 e agli interrogativi che accompagnavano la lettura delle famose liste degli iscritti a quella congrega.
Pertini aveva appena affidato l'incarico di formare il nuovo Governo a Giovanni Spadolini e qualche speranza di "uscire dal tunnel", come diceva nonno Sandro, non l'avevamo del tutto abbandonata.




I primi due giri furono percorsi in gruppo, quasi per prendere confidenza con l'inedito tracciato.
Alla terza tornata andarono in fuga una quindicina di corridori tra i quali Contini, Argentin e Visentini: avevano disputato tutti un buon Giro d'Italia , la condizione c'era e provarono a mettersi in luce.
Toccò alla squadra di Saronni il compito di annullare quella fuga mattutina che durò soltanto un paio di giri.

Ma fu Moser che sembrò avere intenzione di controllare la corsa perché, al sesto giro, mandò in avanscoperta il fido Torelli (che restò da solo al comando per ben cinque tornate) e, poi, Mazzantini.
Voleva costringere a lavorare i gregari dell'eterno rivale ed in effetti il gruppo che inseguiva era guidato ancora una volta proprio dagli uomini della Gis che, messi alla frusta dal loro capitano, riuscirono ancora una volta a ricompattare le fila.

Quando mancavano tre giri alla fine Mario Beccia ruppe gli indugi e cercò la soluzione solitaria. Passò in cima alla salita con ventiquattro secondi di vantaggio ed incrementò il suo distacco sino a superare il minuto.





Era un tentativo interessante, quello dell'uomo della Hoonved–Bottecchia, che impensierì i favoriti.
Saronni mise alla frusta i suoi uomini: Lualdi, Ceruti, Piovani e Panizza guidarono l'inseguimento e all'ultimo giro, sul punto più duro della salita, raggiunsero il fuggitivo.
Dopo il breve falsopiano il primo a partire fu Chinetti, con un allungo che gli consentì di avvantaggiarsi sui primi.

Fu a questo punto che accadde il fattaccio.
Moser rallentò per cambiare rapporto: fu solo questione di attimi, ma si creò un buco nel quale Saronni cercò di infilarsi, rischiando di far cadere il trentino.
«Ma dove vai, non vedi cosa combini?», gli urlò Moser inferocito.
La risposta di Saronni non si fece attendere: «Stai a casa se non sei capace di correre, tanto è lo stesso».
Parole grosse, e mancò poco che i due non venissero alle mani.
Se l'incidente fosse avvenuto in un momento tranquillo della corsa sarebbero scesi di sella e passati alla vie di fatto, tanto era salito il livello della tensione, e avrebbero riproposto una scazzottatura almeno pari a quella che si era vista tanti anni prima sulle strade del Tour, tra Taccone e Manzaneque.

Francesco ebbe una reazione rabbiosa: quelle parole gli centuplicarono le forze. Si alzò sui pedali e raggiunse Chinetti, e subito dopo si accodò Natale, reduce da un ottimo Giro della Svizzera.
Panizza, guardingo, prese le ruote dei fuggitivi e aspettò che Saronni si facesse sotto.
Si voltò, ma il capitano non c'era e allora, con un ultimo sforzo, il piccolo varesino si portò sui fuggitivi: sarebbero stati loro a giocarsi la maglia tricolore.

Moser era una furia in discesa, e più ripensava alle parole rivoltegli del rivale più affondava con energia sui pedali. Voleva fargliela pagare, era chiaro, e la compagnia non lo impensieriva più di tanto.
Poi l'aria di quelle parti gli faceva bene: non più tardi di un mese prima si era aggiudicato a Salsomaggiore una tappa del Giro, dopo una fuga d'altri tempi.
«Non sarei stato capace di correre, quindi? Ci pensasse bene, quel moccioso, prima di parlare a vanvera!».
La volata non ebbe storia: era caricato a mille, Francesco, e se la sarebbe sentita di confrontarsi con i migliori velocisti di sempre.
Panizza scattò ai mille metri, ma venne ripreso. Ci provò Natale a impostare la volata lunga, ma non gli venne lasciato spazio.
Ai duecento metri partì Moser, e non ce ne fu per nessuno: vinse, e facile, davanti ad un sorprendente Panizza e a Chinetti. A cinque secondi arrivò Natale e Gavazzi, a trentasei secondi, si aggiudicò la volata del gruppo.


                                         



Fu un trionfo per il trentino: punto sul vivo, sfoderò tutto il suo orgoglio vincendo con rabbia.
Al momento dello scatto decisivo fu spronato da Masciarelli: «Vai che sono tutti morti», gli aveva urlato l'abruzzese, e quell'incitamento gli aveva messo le ali ai piedi.

E Saronni? Il campione uscente cercò di giustificarsi. Lui, che aveva nello scatto l'arma migliore, non aveva saputo reagire all'azione perentoria di Moser: «Colpa di Masciarelli - disse - che ha fatto il buco nel momento decisivo».
E colpa anche della catena, che sarebbe saltata nel momento in cui cercava di cambiare a sua volta rapporto.
Ma in cuor suo sapeva di averla combinata grossa: aveva rischiato un incontro di boxe in salita e, soprattutto, la sua frase aveva scatenato l'ira del trentino che era raggiante nell'indossare la maglia di campione nazionale su strada, la terza della sua carriera.
L'averla sfilata a Saronni, poi, aumentava a dismisura la sua soddisfazione.
E non sarebbe stata neppure l'unica, quell'anno, perché Francesco si sarebbe aggiudicato anche il titolo di campione italiano dell'inseguimento su pista.

I duelli con il rivale di sempre sarebbero continuati negli anni a venire ma, al tirar delle somme, nelle sfide tricolori il bilancio avrebbe pesato nettamente a favore del trentino.
Quel giorno, a Compiano, per Moser fu un successo netto: non una vittoria ai punti, ma un vero e proprio KO inferto a Saronni.
E solo in senso ciclistico, per fortuna!


www.Cicloweb.it 2011

 

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Mémoires du Tour. Chiappucci, il Sestrière e la fuga solitaria : io c'ero!

Emilia 1978: Felice e Franco scendono di sella