Giro 1976, Torri del Vajolet: non soffiò il vento del cambiamento...

 






Avevo comprato una Lacoste di colore granata nella primavera del 1976.

Potenza della suggestione. Quella che derivava dalla vittoria in campionato del Torino, ventisette anni dopo la tragedia di Superga.

"Torino granata e pro-le-taria!": c'era chi lo gridava scandendo bene le parole  e sperando che la vittoria della squadra di  "Pupi Puliciclone" potesse essere di buon auspicio in vista delle elezioni politiche anticipate del 20 giugno, quelle della auspicata svolta a sinistra.

Per una manciata di giorni non avrei potuto esprimere il mio voto: i diciott'anni li avrei compiuti il 7 luglio, ma quella maglia voleva essere anche un chiaro segno di schieramento perché il voto alla "Balena bianca" non l'avrei dato, nonostante i suggerimenti di un mio amico , che credeva al rinnovamento portato avanti da Benigno Zaccagnini.

Avrei votato radicale, forse, o socialista. E non tanto per gli equilibri più avanzati di cui parlava Francesco De Martino,il segretario del PSI, ma perché mio nonno ( quasi centenario ed impossibilitato a recarsi alle urne) mi diceva che bisognava votare socialista esprimendo due preferenze ("Nenni e Saragat, Nenni e Saragat!", mi ripeteva convinto), dimenticando che Nenni era diventato senatore a vita da un bel pezzo e che l'ex Presidente della Repubblica militava da quasi trent'anni nel PSDI.

E come la Torino granata, anche la Genova rossoblucerchiata sorrideva. Il Grifone sarebbe  ritornato in serie A e nell'ultimo turno di campionato la Samp aveva conquistato la salvezza battendo il Napoli per due a uno.




Quella domenica c'era anche il Giro dell'Appennino, e la notizia della vittoria di Moser davanti a Battaglin arrivò allo stadio a partita finita, mentre passeggiavo sulla pelouse di Marassi (come profumava, quell'erba!), calpestata da noi, tifosi blucerchiati, che a quei tempi ci accontentavamo di essere rimasti nella massima divisione.

Avevo disertato Pontedecimo, dunque. Colpa grave, certamente, ma una tappa del Giro d'Italia, partito da lì a pochi giorni, sarebbe arrivata a Varazze: l'appuntamento con il ciclismo era quindi solo rimandato.

Era, quello, un Giro pre-elettorale che, partito dalla Sicilia , avrebbe risalito lo stivale e sarebbe passato anche in Friuli, che aveva appena vissuto la tragedia del terremoto.

E, come le elezioni, doveva essere il Giro della svolta.




Merckx ci sarebbe stato, in cerca di quel sesto successo che lo avrebbe proiettato solitario in vetta alla classifica dei plurivincitori, e ci sarebbe stato anche Gimondi, il suo eterno rivale.

Ma il pronostico puntava su altri nomi. Su Baronchelli, soprattutto, e su Battaglin, ai quali si chiedeva di confermare , con la vittoria finale, le belle cose che avevano fatto vedere nelle edizioni precedenti.

Torriani, il gran patron, sembrava aver pensato a loro disegnando un Giro con parecchie salite, una corsa che i critici ritenevano dura e impegnativa.

Un episodio molto triste segnò l'avvio della Corsa Rosa: erano gli ultimi giorni di scuola, e i commenti sulla conclusione del campionato e sulle imminenti elezioni lasciarono il posto a quelli sulla tragica fine dello spagnolo Santisteban, caduto nella prima tappa, in una discesa della Sicilia. Noi non ci avevamo mai pensato, ma si poteva anche morire di ciclismo.




Tanto Belgio, in quelle prime tappe. Da Sercu, che riaffermava il suo valore di sprinter di prim'ordine, a Van Linden, giovane speranza belga; a De Muynck, che scappò nel finale e arrivò tutto solo a Matera, indossando la maglia rosa.

Fu solo per un giorno, perché nella crono di Ostuni Francesco Moser, che aveva già vinto in volata a Messina, stracciò tutti contro il tempo e indossò il simbolo del primato.

Quel giorno la notizia non fu solo il successo del trentino, ma il secondo posto di Felice Gimondi che il giorno successivo, complice la crisi del campione d'Italia a lago Laceno, tornò ad indossare la maglia rosa, sette anni dopo l'ultima volta.

E mentre la nazionale di calcio incassava batoste al trofeo del Bicenterario Usa , Felice risaliva la penisola primo in classifica, tra l'entusiasmo dei suoi vecchi tifosi.

Si aspettava che avanzasse il nuovo, ma il vecchio bergamasco, invece di imboccare il viale del tramonto, era ancora lì, davanti a tutti.

Lo vidi da vicino a Varazze, nel dopo tappa della frazione conquistata da Moser, mentre si faceva largo tra da una folla di appassionati in delirio.

Ricordo che vidi da vicino anche Cribiori, con il quale mio padre si complimentò per i successi della Brooklin. Franco, affabile e disponibile, ringraziò con la sua erre moscia inconfondibile.




Poi, il giorno della tappa che arrivava a Longarone, Gimondi cadde, ma il gruppo l'aspettò.

Si rimise in sella, Felice, dopo minuti di paura. Poteva essere la notizia del giorno, ma quel pomeriggio il Giro d'Italia passò in secondo piano.

Francesco Coco - il Procuratore Generale di Genova - e gli uomini della sua scorta erano stati assassinati in Via Balbi, all'inizio di Salita Santa Brigida .

Mi trovavo in Piazza della Nunziata, a poca distanza dal luogo dell'eccidio, e ricordo che non osai avvicinarmi.

Erano cominciati gli anni di piombo e neppure si poteva immaginare quello che sarebbe accaduto da lì in poi.





Il giorno dopo fu la volta delle Torri del Vajolet, la tappa che avrebbe potuto decidere quel Giro.

Tappa breve (132 chilometri appena) con cinque gpm in rapida successione ( Forcella Staulanza, Santa Lucia, Falzarego, Gardena , Sella) e l'arrivo ai 2004 metri all'ombra del gruppo dolomitico della Val di Fassa.

L'ultima salita, inedita e sterrata, aveva  picchi di pendenza vicini al venti per cento. Chi l'aveva provata la temeva e c'era il rischio, sbagliando rapporti, di fare del ciclocross.

Era la tappa regina, alla partenza della quale la classifica era quanto mai corta e aperta  ad ogni possibile soluzione.

Alle spalle di Gimondi (dopo la caduta, non era accreditato dei favori del pronostico) c'erano almeno otto atleti che si sarebbero giocati il Giro su quelle rampe. De Muynck, staccato di soli 18 secondi pareva il più accreditato, ma anche Panizza, terzo a 37", poteva dire la sua.

E De Vlaeminck, quarto a 57", sarebbe riuscito a superare senza troppi danni l'erta finale?

Da Baronchelli, in quinta posizione a 59", ci si aspettava l'impresa mentre per Moser, che lo seguiva in classifica a 1'05" da Gimondi, quell'arrivo era un'incognita.

Bertoglio, a 1'08", avrebbe certamente giocato le sue carte (dopo il ritiro di Battaglin era il capitano della Jolly Ceramica), mentre De Witte - che aveva vinto al Ciocco - contava di ripetersi. Il lotto dei favoriti si chiudeva con Merckx, nono a 1'23". Non era tagliato fuori dai giochi il campione belga, ma le sue dichiarazioni della vigilia non lasciavano ben sperare.

Ci sarebbe stata tanta gente, su quell'ultima salita, e l'organizzazione diramò un appello ai tifosi - controfirmato dai corridori - per comportarsi civilmente.



Quel 9 giugno era una splendida giornata di sole sulle Dolomiti.

Gli spagnoli Oliva ed Esparza se ne andarono sul primo colle di giornata e proseguirono la loro fuga sino in vetta al Falzarego, con un minuto e mezzo di vantaggio su Moser e Zilioli.

E fu proprio Moser, in discesa, a raggiungere i fuggitivi ed a proporsi per un tentativo che si arenò sul Gardena.

Su questa salita ci si aspettava un attacco dei pretendenti al successo finale, ma fu l'iberico Gandarias a scattare ed a transitare in vetta con 50 secondi di vantaggio sui migliori. Tutti, ad eccezione di De Vlaeminck che inseguiva a 2'20". Anche sul Sella, la Cima Coppi, passò per primo lo spagnolo ed a Canazei, in fondo alla discesa, i pretendenti al successo finale erano ancora tutti insieme.

Non c'era stato l'attacco di Baronchelli, Bertoglio non aveva provato ad andarsene, e nemmeno De Muynck. Gimondi non aveva dato segno di cedimento e pure Moser era passato indenne tra le sue montagne. Solo De Vlaeminck aveva pagato dazio.

Una tappa che, fino a quel momento, aveva deluso le aspettative della vigilia.

Poi, in quei sei chilometri di ascesa finale, scoppiò la bagarre. Tra due ali di folla entusiasta, con le ammiraglie che bruciavano la frizione e le moto che sollevavano polvere, Gandarias proseguì nel suo forcing in un budello che si inerpicava tra i costoni della montagna.


 




Guadrini fu il primo a scatenare l'offensiva, ma furono gli uomini di classifica che - finalmente!- si confrontarono su quelle rampe da ciclismo antico.

De Muynck e Bertoglio attaccarono per primi e Gimondi rispose. Poi il bergamasco fu costretto a cedere.




                                                                              



Baronchelli si piantò e nemmeno l'incitamento dei suoi tifosi (Pista, pista, arriva il Tista! si leggeva su uno striscione) fu sufficiente a farlo restare con i primi. Cedette di schianto Panizza, che pure aveva provato la salita qualche tempo prima.

Si saliva in un clima concitato: da bolgia dantesca, l'avrebbe definito Gianni Brera nelle sue cronache.




                                                                              


Gli alpini facevano fatica a trattenere i tifosi De Muynck venne addirittura colpito da un pugno. Quando Bertoglio attaccò in maniera decisa, il belga cedette.

Gandarias vinse la tappa, stremato, e alla sue spalle a poco più di un minuto arrivò Bertoglio, che tagliò il traguardo sorridente salutando il pubblico.



De Muynck gli arrivò staccato di diciotto secondi, a 1'25 dal vincitore. Poi Gimondi splendido quarto a 2'10 e, in rapida successione dietro di lui, Riccomi, De Witte, Guadrini e Nazabal.

                                                                                  




Appena più staccato Moser, che precedette Merckx ,il vecchio Poggiali e un deludente Tista. Panizza arrivò a oltre quattro minuti, De Vlaeminck a quasi sei.

Perse la maglia Felice, e la riconquistò De Muynck.



Fu l'ultimo tappone  in bianco e nero del Giro d'Italia, e non solo perché la Rai non trasmetteva ancora a colori, ma perché quegli ultimi chilometri di salita perfida sullo sterrato riportavano indietro nel tempo. Bastarono seimila metri per scolpire nella memoria un tappa che, a ben vedere, si consumò solo sull'ultima ascesa dove, tuttavia, entrarono in gioco tutti gli ingredienti necessari per renderla indimenticabile.


                                               

Il Giro non finì alle Torri del Vajolet: dopo lo sterrato del Manghen, ci sarebbe stata la vittoria di Gimondi nella sua Bergamo e, infine, nella crono della Brianza (ad Arcore, allora località nota solo per essere la sede della Molteni), la riconquista della maglia rosa da parte dell'inossidabile bergamasco e il trionfo finale a Milano.


                                                                  


Gli italiani si riconobbero in Felice: solido e rassicurante.

Una certezza, dunque, a fronte dei nuovi alfieri nostrani che stentavano ad imporsi nelle corse a tappe

Una settimana più tardi la maggioranza degli italiani si sarebbe riconosciuta nella vittoria della DC.

Per i cambiamenti - non solo nel ciclismo - bisognava aspettare ancora a lungo...


Mario Silvano  (www.Cicloweb.it  2011)

 

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