San Pellegrino in Alpe: l'ora di Zaina

  


Una  vecchia cartolina , di quelle in bianco e nero, incuriosisce sempre. Se poi raffigura un luogo sconosciuto, ancora di più. La vedevo sin da bambino, tra le quelle conservate da mia zia Eugenia. Era una cartolina  che raffigurava un cippo sormontato da una croce e, sullo sfondo, una catena montuosa.

In alto, a destra, una chiara indicazione  in rima :”Risponde, com’eco di voci lontane, la bianca visione  de l’Alpi Apuane”.

Quindi doveva trattarsi della Toscana, perchè là erano posizionate le Alpi Apuane, bianche di marmo. Mica le avevo mai viste dal vivo, beninteso, ma le foto sul sussidiario rendevano bene l’idea. E poi quel racconto su Luni, la città di candido marmo, distrutta dai Barbari che la saccheggiarono convinti di essere arrivati a Roma. Ma dov’è San Pellegrino in Alpe?” chiedevo incuriosito.

Fammi vedere, chi l’ha scritta?…Ah, è di Eufemia! Allora deve essere dalle sue parti, vicino a Castelnuovo, in Garfagnana”.




  La Garfagnana : mi sembrava un luogo quasi inaccessibile. Castelnuovo era il paese di origine di una simpatica amica di famiglia che , quando andava in visita ai parenti, non mancava mai di scrivere cartoline. Di solito raffiguravano il paese, ma quella volta scrisse da San Pellegrino. Mia madre ricordava un viaggio in corriera, da Aulla a Castelnuovo . A distanza di anni, me ne parlava  come un incubo: tante curve, strade polverose, sembrava che non si arrivasse mai. Pareva  fosse avvenuto nel Far West e non nell’Italia dei primi anni Cinquanta. E poi sapevo che Giovanni Pascoli aveva  vissuto in quelle zone: ce lo spiegava il maestro , prima di assegnare lo studio a memoria di una sua poesia.(“ Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi;ma un poco ancora lascia che guardi”.) Ma dov’è San Pellegrino?” chiedevo a mia zia. “Eh, dev’essere in Garfagnana!”

 

Fu al Giro dell’89 che venne scoperto San Pellegrino in Alpe.

Era un Giro duro, con tante salite . Dopo le Dolomiti , Torriani aveva inserito due tappe appenniniche prima della conclusione a Firenze.

La prima (Voghera – la Spezia, di 220 km) era un continuo saliscendi , con cinque GPM (Penice, Mercatello, Tomarlo. Montevacà e Cento Croci). Fu vinta da Fignon che suggellò il suo secondo successo al Giro.

Quella successiva , da La Spezia a Prato, prevedeva un tracciato movimentato, con ulteriori cinque GPM, di cui due inediti: San Pellegrino in Alpe  e il Sammommè.




La Garfagnana, in verità, non era nuova ad accogliere  tappe del Giro.  Negli anni 70, la breve ma dura salita del Ciocco aveva regalato intense emozioni.

Ma San Pellegrino mai. Era una novità assoluta. Il profilo altimetrico  incuteva timore. Un’impennata secca verso il cielo, proprio alle spalle di Castelnuovo, al confine tra Toscana ed Emilia .




 Ma  quell’anno  era collocata troppo distante dal traguardo e, pur temuta, non fece registrare sconquassi. Neppure ebbe l’onore delle diretta televisiva . La superarono in tanti senza eccessivi patemi e Gianni Bugno scelse di involarsi in fondo alla discesa delle Piastre per cogliere un bel successo a Prato


 

Il Giro del 1995 la riscoprì, in una tappa ( l’undicesima) che prevedeva l’ascesa alla Foce dei Carpinelli  e la conclusione al Ciocco dopo 175 chilometri.  E  stavolta era ben posizionata, in grado di dare uno scossone forse decisivo alla corsa , prima dell’ultima salita.

                                            



Una tappa pensata per Pantani, si disse. E Marco andò a provarla , quell’inverno, in compagnia del fido Siboni. Salita impegnativa , la definì il Pirata: non tanto nei primi chilometri, quanto nel finale, da paura. Un paio di chilometri- in alcuni punti la pendenza è prossima al 20%- che costrinsero Marco a utilizzare il 24. Avrebbe preferito che la tappa del Giro terminasse  lassù, ma la durezza della salita, secondo il romagnolo, avrebbe comunque  lasciato il segno prima dell’erta finale , anch’essa temibile.Poi Pantani  fu vittima di un incidente, poco prima dell’inizio del Giro  e non potè presentarsi alla partenza delle Corsa Rosa.


                                                                           


 

 

Quel 25 maggio partimmo in moto da Chiavari, Rosa ed io, alla scoperta della Garfagnana e di San Pellegrino.

Autostrada sino ad Aulla (non ancora famosa, all’epoca,  per il monumento a Bettino Craxi), poi la Foce Carpinelli.

Paesaggio verdissimo, la Garfagnana, luoghi incontaminati: ma quante curve! Era divertente sulle due ruote, ma solo allora  compresi che , percorrere quel tratto in corriera, non doveva essere stato altrettanto gioioso. L’isolamento di quella terra (stretta tra le Alpi Apuane e l’Appennino Tosco- Emiliano) l’aveva preservata dall’aspetto peggiore del progresso. Persino la ferrovia era arrivata tardi, negli anni 50.

Fu una fortuna andare in moto. Il transito per le auto era già stato interdetto , ma per la Guzzi fu disco verde. A Pieve Fosciana un cenno  di assenso del poliziotto mi fece aprire il gas con maggiore convinzione.

La prima parte della salita non presentava particolari asperità: costante, ma senza pendenze eccessive.

Dopo alcuni chilometri la strada spianava e, addirittura, c’era un tratto in leggera discesa.

 Poi, improvvisamente, un muro. Da lì sino al millenario Santuario un percorso durissimo: nulla da invidiare ad una salita alpina.

In prossimità della chiesa il tratto più ripido , e anche la moto (un vecchio 350) faticava a mantenere una buona andatura.

Quel cartello che indicava il 18% di pendenza non sembrava rispecchiare l’effettiva durezza della salita che, almeno in certi punti, pareva assai più severa.




Dopo il Santuario la salita proseguiva fino a raggiungere il Passo, ma in realtà la vera vetta era proprio li, all’altezza di quella chiesa fondata - si dice- da un discendente del Re di Scozia.

Un luogo suggestivo, una terra di confine contesa per secoli tra emiliani e lucchesi che, alla fine, decisero salomonicamente di dividere a metà anche il santuario con il risultato che i resti dei due santi custoditi all’interno (San Pellegrino e San Giovanni Bianco) sono per metà in Toscana e per metà in Emilia. 

Ci piazzammo poco prima del Santuario per attendere  il passaggio dei corridori.




 Era una di quelle giornate magiche, ricche di sole ma con l’aria ancora frizzante della primavera. Su alcune vette dell’Appennino tosco emiliano c’erano tracce di neve: il monte Cimone si distingueva benissimo.

Pur essendo un giorno feriale c’era la folla delle grandi occasioni, con gli appassionati toscani a farla da padrone.

Rominger  era in maglia rosa , seguito in classifica da Berzin e Ugrumov. Insieme al duo della Gewiss, si aspettavano grandi cose soprattutto da Casagrande e da Chiappucci. Il Diablo, assente Pantani, sarebbe stato capace di infiammare gli animi dei tifosi rendendo vita dura all’elvetico della Mapei? E Casagrande avrebbe provato a lasciare il segno nella sua terra?




 

Fu una fuga a lunga gittata a caratterizzare quella tappa: poco dopo la partenza partirono in 12     a velocità folle: quasi 49 chilometri percorsi nella prima ora, oltre 42 nella seconda.

E c’era Podenzana, in maglia tricolore, e Cipollini -in maglia ciclamino- che sentiva aria di casa.

 E c’erano Zaina , Miceli e Saligari e con loro Scinto e Vatteroni, Molinari e Canzonieri, Pagnin, Meyer e  Hunderktmark.

Sulla Foce  Carpinelli transitò per primo il campione  d’Italia , applaudito dal babbo che lo aspettava lassù, all’altezza del GPM.  .Neppure una caduta, nella successiva discesa,  ostacolò la fuga.

La valle del Serchio, anzi, ricompattò i fuggitivi che si presentarono, tutti insieme, all’attacco del San Pellegrino.

In cima, nel frattempo, passava Bartali  alla guida della sua Golf bianca  , e fu entusiasmo da stadio.

C’è Bartali, babbo”, disse un tifoso all’anziano genitore che , un po’ barcollando, fece appena in tempo ad esclamare “Gino!” all’indirizzo del vecchio campione.

Mi girai , e  dietro alle lenti vidi gli occhi umidi.

 

 



All’inizio della parte più dura della salita Luca Scinto si trovò da solo al comando della corsa.

Alle sue spalle resisteva Vatteroni, che venne ben presto raggiunto da Zaina. L’atleta  della Carrera  raggiunse poi il temporaneo fuggitivo e, sulle rampe più dure della salita, lo staccò.

Il bresciano si presentò da solo in vista del Santuario , tra un tripudio di folla.






Per poterlo vedere bisognava sporgersi, farsi largo tra i tifosi.

Zaina  era preceduto dalla moto della televisione e da una motostaffetta della polizia  stradale.

Mia moglie Rosa, presa dall’entusiasmo, si sporse troppo. Apparve in primo piano, in diretta televisiva,  ma il suo piede andò ad incocciare quello del poliziotto che, data l’andatura , era costretto- per mantenersi in equilibrio-a procedere con i piedi fuori dalle pedane. Pur  barcollando vistosamente, riuscì a mantenersi fortunosamente  in equilibrio, non mancando di lanciare un’occhiataccia a Rosa (e forse anche qualche parola irripetibile che, nel trambusto generale, non si riuscì a percepire.).

 Fu quasi  un miracolo se non accade di peggio.

    





Intanto era rinvenuto fortissimo Nelson “Cacaito” Rodriguez che dapprima raggiunse Vatteroni poi Scinto e, infine, Zaina.

Il gruppetto della maglia rosa seguiva ad oltre due minuti. L’elvetico chiedeva ripetutamente acqua agli spettatori, ma nessuno si lasciò commuovere. E con lui, tra gli altri, c’erano Casagrande e Rebellin, Berzin  e Ugrumov,  Cenghialta e Lanfranchi,

Dopo il loro passaggio i distacchi cominciarono a farsi pesanti. Passò Cipollini, che sembrava quasi fermo.

Le ammiraglie procedevano lentissime  e fu un miracolo se nessuna frizione si bruciò.




Zaina , quel giorno, meritò la vittoria. Sulle rampe del Ciocco tentò ripetutamente di liberarsi di Rodriguez che, particolarmente “azzeccoso”, non tirò un metro, restando incollato alla ruota del bresciano.                                                                    







Insieme (Nella terra solitaria siamo in due, sempre in cammino) si presentarono all’arrivo e, nonostante il disperato tentativo del piccolo colombiano, Zaina seppe resistere e tagliò per primo il traguardo.




Dopo di loro arrivò un giovane trentino- Gilberto Simoni- che, su quelle salite , capì che prima o poi  avrebbe potuto lottare per il primato in un grande Giro.

Quel giorno molti avrebbero voluto vedere trionfare un altro uomo con la maglia della Carrera: Zaina in qualche modo fece le sue veci regalando , come scrisse qualcuno, “ momenti da Pantani.”




 

E  –forse- anche nel 2000 Zaina avrebbe potuto fare la sua corsa sul San Pellegrino.

Il quel Giro, infatti, il San Pellegrino venne nuovamente inserito nel tracciato.

 Era la dodicesima tappa , da Prato all’Abetone. Tappa corta , 138 chilometri appena, dedicata alla memoria di Gino Bartali, scomparso da pochi giorni, con il San Pellegrino piazzato a circa 25 chilometri dall’arrivo.







Non passò la Golf bianca di fronte al Santuario, ma Gino era lo stesso lassù, tra la sua gente.

Fu il giorno di Francesco Casagrande che, vincendo sulle strade di casa, accarezzò il sogno rosa che mai, come quell’anno, sembro sul punto di realizzarsi. Scattò sulle rampe del San Pellegrino, transitando da solo in vetta (24” su Di Luca , Garzelli e Frigo)  e gettandosi a capofitto in discesa : ai piedi della salita finale aveva due minuti di vantaggio sugli inseguitori e l’Abetone fu suo, conquistando, con la vittoria di tappa, anche le insegne del primato.

Ma fu nuovamente, anche se in modo diverso, il giorno di Zaina.

Anche quell’anno, infatti,  il bresciano era compagno di squadra di Pantani.

Marco aveva deciso  di correre il Giro d’Italia appena un mese prima . La tappa dell’Abetone rappresentava per lui un vero e proprio test.

Ma il San Pellegrino , la salita che aveva provato pochi anni prima in una gelida giornata invernale, quel giorno lo respinse.

Si staccò dai migliori , circondato dai suoi compagni di squadra.


                                      

Garzelli decise (o gli fu ordinato) di fare la sua corsa , riportandosi sul gruppetto all’inseguimento di Casagrande, splendido   e solitario fuggitivo. Col senno di poi, fu una decisione giusta, almeno sotto il profilo strategico : se Garzelli fosse rimasto con Pantani, difficilmente avrebbe vinto il Giro d’Italia.

Anche Zaina  avrebbe voluto involarsi su quelle rampe che lo avevano visto protagonista cinque anni prima.(“ Lascia che guardi dentro il mio cuore, lascia ch'io viva del mio passato).

  Il San Pellegrino lo esaltava e su quei tornanti ritrovava l’energia dei giorni migliori, quelli che gli avevano permesso di salire sul podio del Giro del 96. Non scattò il bresciano, e restò accanto a Marco, scortandolo sin sul traguardo, dove arrivarono dopo quasi sette minuti.

 Fu sacrificio per il suo capitano o l’obbedienza agli ordini ricevuti dall’ammiraglia?

Si disse che Zaina, in realtà, avrebbe voluto involarsi perché si sentiva bene, ma Martinelli glielo impedì, ordinandogli di stare accanto a Marco. Alla sera pare che il bresciano fosse arrabbiatissimo  e litigò furiosamente con Martinelli, decidendo di ritirarsi dal Giro (O stanco dolore, riposa!.)



Si disse che neppure Marco fu risparmiato dallo sfogo del suo compagno di squadra

 In ogni caso,  per Zaina  non fu una giornata semplice  , ed è facile immaginare i sui sentimenti, quella sera. Che avrebbe pensato Marco di lui? Proprio lui, che, a Madonna di Campiglio , aveva vissuto  con Marco la giornata più brutta della sua, anzi, della loro vita. Lasciò le corse, alla fine di quell’anno.

L’abbraccio che gli regalò Marco, al Giro del 2003, quando lo rivide sul traguardo della tappa di Faenza ,valeva più di una vittoria.

Magari anche più di quella ottenuta un giorno di Maggio, sulle rampe del San Pellegrino in Alpe.


Mario Silvano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

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