Liegi 1980: la strepitosa impresa di Hinault sotto la neve

 

                                



Comodamente seduto su una poltrona, nella hall dell’albergo che l’ospitava, Giuseppe Saronni rispondeva sereno alle domande dei giornalisti.
Alla vigilia della Liegi era lui l’uomo da battere. Sullo schermo scorrevano le immagini di un servizio che la televisione belga gli aveva dedicato, ed i giornali erano pieni delle sue foto.
Quello scatto sulla còte d’Annette - quando aveva lasciato sui pedali Hinault - e la rincorsa sul fuggitivo Nillson avevano impressionato i più scettici: doveva recuperare 53” sull’intraprendente svedese e mancavano undici chilometri al traguardo. Gliene erano bastati meno di cinque per agguantarlo, e la vittoria in volata era stata solo una formalità...

Era pur vero che, solo alcuni giorni prima, Francesco Moser aveva trionfato a Roubaix , cogliendo il terzo successo consecutivo sul pavè, ma quello scatto del “Bimbo” aveva lasciato il segno.
“Se sto bene, provo a vincere la Liegi. La mia parte l’ho già fatta, ma la condizione c’è”.
Ed era lecito sperare, perché il percorso della Doyenne era simile, almeno in parte, a quello della Freccia. C’era la Redoute, a meno di trenta chilometri dal traguardo, ma poteva far paura al Saronni di quei giorni di aprile del 1980?

                                                                                    



Moser non ci sarebbe stato, e neppure Raas e Knetemann. Due avversari lo impensierivano: il tedesco Thurau, vincitore dell’ultima edizione e, soprattutto, Bernard Hinault, che la Liegi l’aveva già vinta nel ’77 e che l’anno prima si era dovuto accontentare della piazza d’onore.
Il bretone aveva rimediato due scoppole non da poco dai nostri campioni: sulle pietre della Roubaix Francesco gli aveva rifilato più di sei minuti e, alla Freccia, non aveva saputo rispondere allo scatto di Beppe, giungendo al traguardo distanziato di 1’40”.
Conoscendo l’orgoglio di Nanard, non era pensabile che avrebbe subìto per la terza volta nel giro di una settimana.
Era prevedibile, anzi, che sarebbe stato proprio lui a fare la corsa e Beppe gli avrebbe lasciato volentieri l’iniziativa: così facendo avrebbe potuto correre nel modo che preferiva (“alla Saronni”, insomma), controllando gli avversari e giocandosi la vittoria in uno sprint a ranghi ridotti.

Solo una circostanza gettava un’ombra sulle aspettative della vigilia: il bollettino meteo parlava di tempo piovoso, con vento e temperature rigide.
Un ritorno dell’inverno, a fronte del tempo quasi estivo che aveva caratterizzato la Freccia Vallone, con i tifosi in maniche di camicia ad applaudire i corridori e un sole che sembrava di essere al Trofeo Pantalica.
Con l’acqua e il freddo le azioni di Hinault erano in deciso rialzo: non aveva forse trionfato al Lombardia, in una giornata caratterizzata dal maltempo?
                               


Domenica 20 aprile partono in 178, ed è subito neve.
I corridori sono intirizziti dal freddo e la prospettiva di dover percorrere 244 chilometri in quelle condizioni non è incoraggiante.
Ai vecchi suiveurs ritornano alla mente le giornate del Bondone e del Rolle e chi ne ha solo sentito parlare non osa pensare a quello che può accadere. Bastano infatti poche pedalate per capire che sarà una Liège indimenticabile.
Tra i primi a ritirarsi – dopo appena 15 chilometri - ci sono Knudsen e il nostro Pierino Gavazzi, fresco vincitore della Sanremo.
Saronni resiste poco di più perchè al trentaduesimo chilometro, in piena bufera, sale sull’ammiraglia: i fiocchi gelidi sono stati ben più convincenti delle speranze espresse alla vigilia.
Parlerà di tracheite, di ritiro “forzato” per non compromettere la stagione.
Anche Baronchelli, che di solito non si spaventa con il maltempo, getta la spugna .
Beppe e Tista non sono tuttavia casi isolati: nei primi cinquanta chilometri, infatti, si ritira un’ottantina di corridori e, al primo rifornimento, il numero di chi ha preferito rinunciare sale a cento.
                                



Altri, invece, resistono stoicamente, come gli olandesi della T-Raleigh o come Rudy Pevenage che si lancia all’attacco.
E Hinault? Il bretone, al rifornimento di metà gara, pensa seriamente a scendere dalla bici. Continua a nevicare, e tra meno di un mese dovrà partecipare al suo primo Giro d’Italia: vale la pena di rischiare e compromettere la stagione?
                               


Ne parla con Guimard ma il suo d.s. sa toccare le corde giuste: quelle dell’orgoglio, del carattere e della determinazione. Le parole di Maurice Le Guilloux, suo compagno di squadra, fanno il resto.
E’ un attimo: cambia la bicicletta e la mantellina e prosegue, benché attardato rispetto ai primi.
                                



Sullo Stockeau non nevica più, ma il paesaggio è spettrale. Le colline della Ardenne sono innevate.
Pevenage prosegue nel suo tentativo, ma Hinault è pimpante. Indossa un vistoso passamontagna e guantoni pesanti: più che un corridore sembra un alpinista mentre attacca le ripide pendenze del muro vallone.
                                


Alle sue spalle, unico superstite dei nostri, c’è Silvano Contini, il quale cerca di restare attaccato alla ruota del bretone, proprio come al Lombardia.
                                

                                
Kuiper, invece, è costretto a mettere il piede a terra, mentre altri non disdegnano le spinte degli spettatori.
E’ una corsa ad eliminazione ed il numero dei concorrenti si assottiglia via via che i chilometri aumentano .

                                                                            



Poi, quando mancano un’ottantina di chilometri al traguardo, sulla Cote de Haute Levée Hinault lancia la sua sfida. Aveva un ritardo di oltre due minuti da Pevenage, scaverà un abisso tra lui e gli altri, perché nessuno sarà in grado di resistergli.
                              


Ormai non nevica più, Guimard aveva visto giusto: la pioggia gelida e il vento polare sono poca cosa rispetto a quello che si è visto nella prima parte della gara.
                                

                                
E’ una progressione impressionante, quella del campione in maglia Renault, che esalta i tifosi e gli addetti ai lavori.
Una cavalcata solitaria da ciclismo antico, che rinnova l’epopea dei grandi eroi del passato.
                                


Quando mancano quaranta chilometri all’arrivo il bretone ha un vantaggio ormai incolmabile: sono già otto i minuti che lo separano dai più immediati inseguitori e si avvicina a Liegi senza accusare cedimenti.
                                 

                                
I pochi superstiti (sono rimasti in ventuno) vengono premiati, nell’ultimo tratto di gara, anche da un pallido sole, quasi che il Cielo li volesse ricompensare delle fatiche patite.

                             

                                

                                


Hinault si è tolto da un pezzo il passamontagna e aumenta ancora il suo vantaggio. Sul suo volto si leggono i segni della fatica: dopo sette ore di gara, mentre passa sotto lo striscione d’arrivo, non ha neppure la forza di alzare le braccia (si saprà, poi, che aveva due dita delle mani congelate), ma si capisce che vive un momento di enorme soddisfazione.
                                


Bisognerà aspettare 9’24 perché Hennie Kuiper tagli il traguardo, in compagnia del neoprofessionista belga Ronnie Claes.
E’ il podio della gara, ma tutti quelli che concludono la Liège meriterebbero di salirci.
Fons de Wolf, giovane leone di Fiandria, è quarto, a 10’34, e con lui arrivano Pierre Bazzo e Ludo Peeters.
Al settimo posto, a 12’05 e in splendida solitudine, c’è il vecchio Hermann van Springel, quasi trentasettenne, autore di una prova caparbia: ne ha viste tante durante la sua lunga carriera, ma un’esperienza come questa ancora gli mancava.
A 12’35, un gruppetto di cinque corridori: con Guido Van Calster ci sono Van der Velde (che ricorderà questo giorno quando, anni dopo, affronterà il Gavia nella bufera), Schepers, Duclos- Lassalle e il nostro Silvano Contini, unico sopravvissuto della compagine azzurra, per il quale l’appuntamento con una corsa che gli si addice è solo rimandato.
Tra un arrivo e l’altro passano momenti che sembrano interminabili.
                                


A poco più di sedici minuti si piazzano Lubberding, lo svizzero Mutter e Pascal Simon, a quasi diciotto Jan Jonkers, a 18’35” Ossterbosch, Wellens e Pirard.
Ci sono voluti 19 minuti per 19 corridori. E’ una conta impietosa, ma non è ancora finita.
Jean Toso arriva a 24’06” e a ventisette minuti- ai limiti del tempo massimo- tondi) passa sotto lo striscione Willmann: è un norvegese, e pare incredibile che a chiudere le fila sia proprio un uomo avvezzo al gelo.
                                



E’ stata una vera e propria decimazione, e chi è arrivato in fondo è consapevole di avere vissuto una giornata che entrerà nella leggenda
Duclos- Lassalle sintetizza bene il senso di quella Liegi. ”Fatiche come questa” –dice- “accorciano la vita di un uomo” ,E c’e da credergli.
E’ stato un trionfo per Hinault, una prova di forza che ha spazzato via, in un sol colpo, le delusioni patite alla Roubaix e alla Freccia. Una sfida vinta non solo contro gli avversari, ma anche contro sé stesso e che lo conferma - se ancora ce ne fosse stato bisogno- campione di prima grandezza.
Eddy Merckx- che di Liegi ne ha vinte ben cinque- è impressionato dalla prova del campione di Yffiniac e azzarda una profezia :”Questo tipo qui”- afferma- “farà una passeggiata al Giro”.

                                                                           



“Neige – Bastogne- Neige” sarebbe stata ribattezzata quella storica edizione della “decana” , teatro di una delle più entusiasmanti cavalcate in solitaria nella storia del ciclismo.
A Jacques Brel, se solo vi avesse assistito, sarebbe piaciuta perché i versi che aveva scritto sembravano fatti apposta per descrivere quella giornata :
Nevica su Liegi, tanto turbina la neve tra il cielo e Liegi che non si sa più se nevica su Liegi o se è Liegi che nevica verso il cielo”.

Mario Silvano
www.ilciclismo.it, 2008

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