Chiedi chi era Taccone
Me lo ricordo bene, Vito Taccone, al “Processo alla Tappa”,
in quei infiammati dopocorsa che lo vedevano protagonista accanto ai più bei
nomi del giornalismo nostrano, sportivo e non. Quella ribalta televisiva gli
regalò una popolarità immensa tant’è che, a distanza di oltre quarant’anni, due
nomi su tutti sono associati a quella trasmissione: Sergio Zavoli, che la ideò,
e Vito Taccone , autentico mattatore . Perché il Processo sembrava fatto
apposta per lui, per la sua “vis” polemica , per la sua schiettezza che piaceva
tanto agli appassionati. Adorni , con il suo eloquio forbito , appariva più
distante dal sentire della gente del ciclismo, dalla sua anima autenticamente
popolare. Per la generazione dei nostri padri ( o, almeno, per una buona parte
) Taccone era uno di loro, perchè veniva dalla campagna . Perché come loro
aveva patito la fame e sin da ragazzo aveva lavorato, aiutando la famiglia.
Perchè avrebbe voluto studiare , ma in casa non c’erano neppure i soldi per
comprare i quaderni. In quell’Italia dei primi anni 60, quindi, la storia di
Taccone era la storia di tanti, di quelli che erano stati solo sfiorati dal
boom economico e che magari non avevano neppure l’acqua in casa. Anche per
questo piaceva , e non solo nel suo Abruzzo o, più in generale, nel Sud. E
piaceva perché i suoi valori erano quelli del sacrificio, della fatica e della
rinuncia e perché grazie a questi valori aveva lottato e ce l’aveva fatta a
conquistarsi un posto nella vita.
Abruzzese di Avezzano
- classe 1940- marsicano purosangue, inizia a lavorare presto, facendo il
pastore. E’ poco più di un bambino, ma la guerra è appena finita e c’è miseria,
di quella vera. Poi diventa garzone di fornaio e pedala per effettuare le
consegne. Un giorno non riesce a portare in tempo il pane alla corriera per la
colonia montana di Capistrello. Che fare? Inforca la bici e lo consegna lui
stesso, affrontando con grande sforzo la salita di Monte Salviano. Ha quindici
anni, Vito, e se un giorno diventerà un campione lo deve a una corriera partita
troppo presto. Viene notato da un corridore locale – Giorgio Jenca- e inizia
con successo la trafila nelle categorie giovanili, con pochi soldi in tasca,
treni presi senza pagare il biglietto, coppe barattate in cambio di denaro e un
grande dolore che lo segnerà: l’uccisione del padre.
Tra i dilettanti si mette in luce vincendo diverse gare ed è
ormai pronto per il gran salto. Passa al professionismo nel 1961 con l’Atala e,
ben diretto da Alfredo Sivocci, vince al Giro la tappa di Potenza,
aggiudicandosi anche la classifica degli scalatori (e gli avversari si
chiamavano Gaul e Massignan, scusate se è poco!). Vince anche in nome di
Alessandro Fantini, velocista abruzzese di Fossacesia, morto tragicamente sul
traguardo di Treviri, al Giro di Germania, proprio pochi giorni prima
dell’inizio del Giro . Il piccolo morsicano (è alto 1,64) trionfa anche nella
Tre giorni del Sud (una corsa a tappe nella quale vince due tappe), ma è al
Giro di Lombardia di quell’anno che coglie la vittoria che andrà ad
impreziosire il suo palmarès: sul Muro di Sormano resiste all’attacco di
Massignan, cedendogli in vetta solo una manciata di secondi. In vista di Como
lo raggiunge, e sulla pista del Senigallia lo batte facilmente in volata. Una
sconfitta che lo scalatore vicentino ricorda ancora oggi,non senza una punta
polemica sul recupero dell’abruzzese, a suo dire favorito dalle moto al
seguito. La sua vittoria ha un significato che va al di là dell’aspetto
sportivo: viene vissuta dai marsicani come una sorta di riscatto dalle
ingiustizie e dai soprusi patiti nel corso del tempo e sarà così per ogni
successo di colui che, da allora in poi, diventa l’alfiere della sua gente.
Nel 1962 è atteso tra i protagonisti della stagione, ma i
troppi festeggiamenti dell’inverno si fanno sentire. Vince solo il Giro del
Piemonte e al Giro d’Italia (nel quale i cinegiornali dell’epoca lo descrivono
come la Giovanna d’Arco nazionale che ci deve liberare dal giogo straniero),
pur piazzandosi al quarto posto finale (e sarà questo il suo miglior risultato
in carriera) non conferma le aspettative della vigilia. E’ contestato dai suoi
tifosi, che si sentono traditi: lo insultano e lui reagisce. Cominciano le
prime scazzottate, i duelli rusticani nei quali Taccone si trova coinvolto: non
è uno che abbozza, Vito, e se viene provocato non porge l’altra guancia.
L’anno successivo è
animato da intenzioni bellicose, ben deciso a dimostrare di non essere un fuoco
di paglia. Comincia bene la stagione vincendo due tappe al Giro di Sardegna (in
una supera addirittura in volata Van Looy!) ed aggiudicandosi, in prossimità
della corsa a tappe nazionale, il Giro di Toscana. Si presenta al Giro in gran
spolvero, ma nella prima tappa (la Napoli- Potenza), per colpa di un ascesso,
accumula un ritardo di ventuno minuti. Ha la febbre alta e sputa sangue, ma non
si spaventa. Nella notte gli vengono estratti ben quattro denti e l’indomani
riparte , recuperando energie. Ha sette vite, l’abruzzese, e lo dimostra nella
tappa che attraversa la sua terra. Scollina per primo a Rionero Sannitico e a
Roccaraso, ed è lanciato in fuga solitaria verso Pescara, osannato dalla sua
gente. Raggiunto dagli inseguitori, dovrà accontentarsi del secondo posto,
battuto in volata da Guido Carlesi. Ma non si abbatte, perché il suo carattere
combattivo non glielo consente. E’ di nuovo in fuga nella tappa di Viterbo e,
finalmente, coglie il successo ad Asti, inaugurando una serie di quattro
vittorie consecutive che resterà nella storia della Corsa Rosa. Il giorno
successivo trionfa nell’inedito arrivo in salita di Oropa, poi a Leukerbad e,
ancora, a Saint Vincent, passando per primo sul Gran San Bernardo, quell’anno
“tetto” del Giro. La classifica generale è compromessa, ma Vito ogni giorno
promette la vittoria nella tappa successiva, mantenendo l’impegno. ”Devo essere
lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una
rapina”, dichiara a Zavoli, e in quelle parole - che sembrano tratte da un
romanzo di Ignazio Silone- c’è tutto il suo vissuto.
Dopo quel fantastico
poker, segna una vera e propria impresa nella tappa dolomitica.. E’ ancora
fresco il ricordo dell’anno precedente, quella “Cavalcata dei Monti Pallidi”
corsa nella tormenta di neve, che costringe Torriani a stoppare la tappa sul
passo Rolle. Vincenzo Meco, suo conterraneo, arriverà per primo
all’improvvisato traguardo e quella vittoria brucia ancora a Vito, quinto
all’arrivo Stavolta, invece, non c’è storia: nella Belluno- Moena scatta sul
Rolle e passa per primo su tutti i passi, arrivando in splendida solitudine e
riscuotendo l’ammirazione degli appassionati. Le strade delle Dolomiti sono
invase dai suoi tifosi che applaudono e inneggiano al loro Vito. Sarà quinto in
classifica finale ma il giorno della conclusione del Giro, al Vigorelli, non ci
sono striscioni che per Taccone, ormai diventato a pieno titolo il camoscio
d’Abruzzo. E’ lui il vincitore morale, e il Giro del 1963 sarà la punta più
alta della sua carriera. L’entusiasmo in Abruzzo è alle stelle: suonano le
campane delle chiese, i tifosi fanno caroselli automobilistici, è festa grande
nella Marsica. Taccone, che viene accolto ad Avezzano da una folla di
sessantamila persone in delirio, è l’homo novus del ciclismo italiano, e
qualche critico azzarda paragoni, accostandolo a Bartali.
Passa alla Salvarani
di Luciano Pezzi, ma il 1964 non è un anno particolarmente fortunato. Si
aggiudica il Giro di Campania, una tappa al Giro di Romandia e la tappa di
Parma al Giro d’Italia, ma non conferma le prestazioni dell’anno precedente. E’
atteso dai suoi tifosi a Roccaraso, in una tappa disegnata apposta per lui.
Sulla salita finale qualcuno scrive una frase in dialetto: “ Tacco', strascina Anchetil pe li chepill“
ma quel giorno Vito arriva staccato perché in corsa ha ricevuto la notizia di
un grave incidente di cui è stato vittima il fratello. Tenta l’avventura del
Tour: sarà la sua prima e unica esperienza alla Grande Boucle, con quella
scazzottata (con lo spagnolo Manzaneque ) che farà il giro del mondo e gli
attaccherà addosso l’etichetta di rissoso e attaccabrighe.
L’anno successivo, ancora in maglia Salvarani, si aggiudica la Milano-Torino e conclude il Giro al sesto posto. Contro Adorni non c’è nulla da fare e Taccone è discontinuo nel rendimento, non riuscendo a confermare le prestazioni di due anni prima. Però è sempre il protagonista assoluto del “Processo alla Tappa”: se c’è Taccone lo spettacolo è assicurato. E’ un torrente in piena quando inizia a parlare, usando espressioni dialettali, cantando in abruzzese, tenendo testa a tutti per la gioia di Zavoli che, pur potendo contare sulle capacità dialettiche di Adorni, deve confrontarsi con i silenzi di Zilioli, la ritrosia di Balmamion, le poche parole di Massignan.
Gli anni migliori,
tuttavia, sembrano ormai passati, anche perché sul palcoscenico del ciclismo
nazionale irrompono prepotentemente altri cavalli di razza, ma Taccone -si sa-
è imprevedibile. E’ un lottatore, in grado di piazzare la botta giusta quando
meno te l’aspetti. Come quella volta a Diano Marina,al Giro del 1966, quando
conquista la sua prima (e unica) maglia rosa in volata, battendo Rudy Altig,
per poi perderla il giorno successivo nell’inedito arrivo in salita di Mònesi.
O al Trofeo Matteotti dello stesso anno quando, con una prova maiuscola,
trionfa- finalmente!- nella sua terra stracciando Felice Gimondi.
Nel biennio 67/68 non
ottiene grossi risultati, ma la convocazione in nazionale per il Mondiale di
Imola è uno stimolo importante. Non è la prima volta che Taccone veste la
maglia azzurra, ma quel giorno gli viene affidato il ruolo di marcare Merckx e
Vito svolge il compito a modo suo. Per dimostrare al belga che non ha la minima
difficoltà a stargli a ruota, a un certo punto gli pedala in faccia con una
gamba sola. Sara quinto all’arrivo, completando il trionfo azzurro sul circuito
dei Tre Monti. In quell’anno, nel quale è anche vice campione d’Italia, coglie
il suo ultimo successo di rilievo - in salita, ovviamente- nella Massa - Pian
della Fioba. Sono gli ultimi fuochi della carriera .
Al Giro dell’anno
successivo cerca di ottenere quello che gli è sempre sfuggito: una vittoria di
tappa in Abruzzo. Si arriva a Silvi Marina e Merckx, in maglia rosa, consente a
Vito di uscire dal gruppo quando mancano pochi chilometri all’arrivo. Con lui
ci sono Schiavon e Ugo Colombo che, in volata, gli soffia l’agognato successo.
Neanche stavolta è andata bene : Vito è amareggiato ma lo è ancora di più Eddy
Merckx, che impreca per il mancato successo dell’abruzzese. Cambia un’ultima
volta casacca e con i colori della Cosatto Marsicano (di cui lui stesso è
sponsor) nel 70 chiude con il ciclismo pedalato. Sarà un caso, ma il Processo
alla Tappa, nato nel 62, chiude i battenti proprio nello stesso anno in cui
Taccone esce di scena.
Ventisette successi all’attivo (tra le quali otto tappe al
Giro, un Lombardia, i Giri di Campania e di Toscana, il Matteotti) due volte
vincitore della classifica per il miglior scalatore al Giro con 21 passaggi in
vetta ai GPM (solo Bartali, Coppi, Fuente e Merckx hanno fatto meglio di lui )
e una serie nutrita di piazzamenti di rilievo nelle più importanti corse in
linea nazionali (quarantasette secondi posti non sono cosa da poco)
costituiscono il palmarès di un’atleta che ha segnato un’ epoca, contribuendo
in modo determinante a risvegliare l’interesse per il ciclismo in un periodo di
transizione . Se si dovesse comporre un ideale puzzle delle immagini in bianco
e nero che meglio contribuiscono a descrivere l’Italia di quegli anni, accanto
ai personaggi interpretati da Gassman ne “Il Sorpasso” o ne “I Mostri”, ci
sarebbe spazio anche per Vito Taccone.
Sceso dalla
bicicletta, inizia una carriera da industriale:è titolare di un maglificio e
produce anche il famoso Amaro Taccone, (preparato con una ricetta segreta
fornitagli dai frati di un convento). Nei primi anni ‘90 viene ripescato dalla
televisione per commentare – da par suo- le tappe del Giro e del Tour. Chi lo
ricordava lo rivede con simpatia, chi non l’aveva conosciuto scopre un
personaggio che non ha perso la carica vitale di quando correva. Apprezza chi
combatte, gli è simpatico Chiappucci, e i suoi commenti sono sempre
caratterizzati da una passione autentica. E, come tutti gli uomini che hanno
alle spalle una storia di sofferenza, non lo spaventano le prove più dure. Ha
il coraggio di annunciare in televisione che nei giorni successivi avrebbe
affrontato un delicato intervento chirurgico e lo dice con serenità, promettendo
che si sarebbe impegnato con tutte le sue forze per sconfiggere un avversario
tosto, cattivo, mostruoso: anche questa volta sarebbe stata una corsa in
salita, come sempre.
Ha vissuto anche
diverse disavventure giudiziarie, all’ultima delle quali il suo cuore non ha
retto. E’ stato un autentico personaggio, Vito Taccone, oltre che essere un
campione. Generoso, schietto, sinceramente attaccato alla sua terra. Ma anche
focoso, istintivo e incapace, spesso, di dominare le emozioni. Il suo carattere
impulsivo gli ha anche nuociuto in carriera, per sua stessa ammissione. Una
foto degli anni 60, scattata a San Marino, lo ritrae in compagnia di Nino
Benvenuti mentre mìmano un incontro di boxe. Perché Taccone – e non è solo
leggenda- spesso andava per le vie di fatto. Ne sanno qualcosa, -oltre a
Manzaneque,- Luciano Armani, schiaffeggiato di brutto e Pellicciari, con cui
ebbe un diverbio nella tappa di Oropa. Una volta si prese a pugni con il
fratello di Meco e anche gli spettatori rischiavano di incappare nell’ira di
Vito. Durante una volata, uno spettatore si sporse e lo fece cadere,
impedendogli di lottare per il successo. Vito, da terra, prese ad imprecare
contro i il malcapitato, scalciandolo ripetutamente. Erano sempre reazioni-
esagerate, il più delle volte- a comportamenti percepiti come ingiustizie ed
alle quali Vito forniva sempre una spiegazione: fece sì a botte con Manzaneque,
ma solo perché lo spagnolo gli strappò il berrettino e, con questo, il pezzo di
ghiaccio che il medico della Salvarani gli aveva imposto di tenere sulla testa.
Ma sapeva anche toccare il cuore della gente, come quella volta che convinse un
gruppo di manifestanti a recedere da un blocco stradale per consentire al Giro
di proseguire o, ancora, quando alla Seigiorni di Montreal cantò “Mamma”
dedicandola agli emigrati di tutte le nazionalità.
Nemico giurato del
doping, metteva sempre in guardia dagli effetti deleteri derivanti
dall’assunzione di certe sostanze. E per essere più credibile raccontava di
quando lui stesso (era il Mondiale di Sallanches del 1964) verificò gli effetti
del contenuto di una borraccia miracolosa: peli che si drizzavano, occhi che
lampeggiavano, una caduta contro il guard-rail che gli fece temere il peggio.
Quando il Giro d’Italia arrivava in Abruzzo, Vito Taccone era sempre in prima
fila: quest’anno, per la prima volta, non ci sarà e non potrà elogiare il suo
conterraneo Danilo Di Luca, primo abruzzese a vincere la più importante corsa a
tappe nazionale. E l’assenza di Taccone
si farà sentire, perché dalla sua voce non sentiremo i ricordi e gli aneddoti
dell’atleta, o quelli del personaggio - unico e irripetibile- del teatrino
televisivo. Mancherà soprattutto l’ autentica passione per il ciclismo e
l’amore viscerale per la sua terra, oltre a quella schiettezza così apprezzata
da chi gli ha voluto bene. Rissoso e irascibile: come negarlo? Ma - credo - con
un grande cuore, lo stesso che lo faceva scattare sulle salite più impervie e
che ci ha regalato tante emozioni. Soprattutto per questo dobbiamo ringraziarlo.
Mario Silvano ( www.ilciclismo.it 2008)
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