La Cuneo- Pinerolo: da Coppi a Bitossi

 





Quella volta che 
Saronni vinse a Pinerolo – era il 1982, penultima tappa del Giro – quasi non ci volevamo credere. Eravamo stati una notte all’addiaccio sul Sestriere, convinti di assistere a qualcosa di memorabile: se non una fuga da lontano, almeno una lotta vecchio stile sui Colli della leggenda.
Mai ci saremmo aspettati una conclusione in volata, con tutti i migliori della classifica a disputarsi la tappa regina del Giro come una qualsiasi frazione di media difficoltà.
Erano passati diciotto anni dalla vittoria in solitaria di Franco Bitossi, trentatrè dal leggendario volo del Campionissimo che aveva consacrato al Mito la tappa dei cinque Colli.

Proprio in virtù di quest’ultima impresa, nell’immaginario collettivo la Cuneo - Pinerolo aveva assunto una valenza simbolica, fino a diventare per gli appassionati il tappone di montagna per antonomasia.
Dicevi Cuneo - Pinerolo e pensavi alla tappa ideale, all’impresa solitaria del grande campione.
E anche per chi di ciclismo non s’interessava, Cuneo- Pinerolo era sinonimo dello sport delle due ruote, come Monza lo era per l’automobilismo e Wimbledon per il tennis.
Un vero e proprio luogo della memoria, non solo sportiva.
Nel Giro del 1949 Fausto Coppi aveva compiuto un’impresa straordinaria, scattando sul Colle della Maddalena e scalando in solitudine tutti i passi previsti lungo i 254 chilometri del percorso: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere, a cavallo del confine italo-francese.
Il secondo, che era pur sempre Gino Bartali, era arrivato a quasi 12 minuti e bastava questo a dare l’esatta dimensione dell’evento.

Come tutte le leggende che si rispettino, ancora oggi – e sono passati oltre settant'anni- ci si chiede che cosa spinse Coppi a partire dopo neppure una sessantina di chilometri, dopo aver pedalato pigramente sotto l’acqua per tre ore, in una strada piena di fango.
Avrebbe potuto aspettare l’Izoard, con le sue severe pendenze, invece reagì ad un allungo del toscano Primo Volpi che a sua volta era scattato – si disse – per una scommessa con Silvio Gigli, il noto commentatore radiofonico suo compaesano.
Alcuni parlarono di un accordo tra il corridore di San Quirico d’Orcia e il tortonese, altri ancora erano convinti che Coppi scattò allorchè si accorse che Bartali – che viaggiava nella pancia del gruppo – aveva messo piede a terra per un foratura: un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne.
Quale che fosse la motivazione di quel gesto – preordinato o istintivo – il fatto è che in cima alla prima salita Coppi aveva già un minuto e mezzo sugli inseguitori.
Il vantaggio aumentò sul Vars e sull’Izoard e negli ultimi cinquanta chilometri assunse dimensioni da ciclismo pioneristico.
Bartali provò ad inseguire e forò cinque volte. Le tre forature di Fausto non gli impedirono di arrivare da solo a Pinerolo.

Costituì, quella tappa, un vero e proprio spartiacque tra il ciclismo epico e quello moderno.
Una fuga quasi anacronistica, su strade impossibili, che laureò definitivamente (per quei pochi che avessero nutrito ancora qualche dubbio) Fausto Coppi quale grande campione delle corse a tappe.
Aveva messo in carniere due Giri d’Italia, la Sanremo, il Lombardia, il primato dell’ora, ma il bilancio nelle corse a tappe pendeva ancora a favore di Bartali che era stato capace, l’anno prima, di vincere il suo secondo Tour.

Il 10 giugno del 1949 il ciclismo voltò pagina.
Bartali avrebbe lottato ancora, da par suo, ma il futuro era nelle gambe di quell’atleta in maglia Bianchi.
Che, con una cavalcata alpina irripetibile, aveva aperto la porta al ciclismo del futuro.
Emozionò l’Italia, che quel giorno restò incollata alla radio. Un’Italia che appena un mese prima aveva perduto, nella tragedia di Superga, la squadra del Grande Torino, uno dei simboli sportivi più amati del dopoguerra.
Ed il significato dell’impresa andava al di là del gesto atletico, perché costituiva un altro segnale di riscossa per il Paese. Avevamo perso la guerra, eravamo stati umiliati con il Trattato di Pace ma, almeno nello sport, un italiano si sapeva imporre all’attenzione del mondo.
Un’impennata d’orgoglio, e anche questo serviva nell’Italia di allora.
Quell’uomo solo al comando della corsa, in maglia bianco celeste, volò per 190 chilometri in solitudine e si aggiudicò il suo terzo Giro. Il mese successivo, sulle strade di Francia, avrebbe conquistato la maglia gialla e l’Izoard, la montagna che prima d’allora il Giro non aveva ancora conosciuto, lo vide passare per primo in entrambe le corse.
Il suo duello a distanza con Gino Bartali aveva a tal punto impressionato Dino Buzzati, che questi scomodò Omero per descrivere ciò che accadde quel giorno, paragonando Fausto ad Achille, l’eroe giovane e vittorioso e Gino al troiano Ettore, sconfitto dall’impietoso passare degli anni.
Fu Mito, quindi, e da quel giorno il Giro non osò confrontarsi con esso, perché non si può sfidare una leggenda.

Poi – era il 1964 – Torriani ci riprovò.
Forse sperava in un altro duello, quello tra il biondo Anquetil e i giovani ardimentosi del ciclismo nostrano. Magari Taccone, che aveva fatto sconquassi in salita l’anno precedente, o Italo Zilioli, dipinto da alcuni come il nuovo Campionissimo o, ancora, con il già esperto Adorni o con Franco Balmamion, che aveva vinto gli ultimi due Giri.
A sorpresa (ma neppure troppo, visto che in quel Giro si era già aggiudicato tre tappe), spuntò Franco Bitossi.
Scattò prima dell’Izoard, il toscano, e tra le rocce della Casse Désert passò in solitudine.
Era lontano dalle prime posizioni in classifica generale: i favoriti per la vittoria finale lo lasciarono andare e, a un certo punto, il suo vantaggio raggiunse dimensioni clamorose: era quasi maglia rosa virtuale. Patì una crisi di fame sul Sestriere ma seppe recuperare e arrivò da solo a Pinerolo. Anquetil riuscì a difendersi senza troppa fatica e il Giro fu suo.

Il confronto con la tappa del 1949 non ammetteva discussioni: c’era stata sì la fuga solitaria, ma da parte di un giovane che, sino allora, non poteva certo considerarsi un primattore, conosciuto più per le bizze del suo cuore che per i successi conseguiti sulle strade.
Fortunatamente gli anni a venire avrebbero dimostrato che quella vittoria non era stata causale, perché Franco Bitossi si sarebbe confermato come uno dei migliori talenti del ciclismo a cavallo tra gli anni 60 e 70.
La Cuneo - Pinerolo aveva avuto quindi un vincitore degno, confermando di essere un ideale palcoscenico che premiava chi avesse avuto gambe, coraggio e cuore, ma non decise alcunché per quanto riguardava le sorti di quel Giro.
Non toccava certo ad Anquetil attaccare in montagna: semmai ai nostri, ma Zilioli & C. non osarono e i fischi con i quali furono accolti al Vigorelli, al termine dell’ultima tappa, rappresentavano un giudizio severo da parte degli appassionati.
Un bel cammeo, l’impresa di Bitossi, ma da quel 10 giugno del ‘49 sembrava passata un’epoca: il ciclismo dell’Italia del boom economico non aveva saputo offrire un’emozione pari a quella che era stata regalata a un paese che cercava faticosamente di ricostruirsi dopo la tragedia della guerra.
Ad Anquetil era bastato vincere una cronometro per mettere le mani sul suo secondo Giro.
Ci sarebbe voluto un Gaul per far saltare il banco, ma tra i pretendenti al successo finale non ce ne fu uno che osasse lanciare la sfida al normanno.
Stesso splendido scenario, dunque, ma la Cuneo- Pinerolo fu  messa - almeno provvisoriamente - in un cassetto, a scanso di ulteriori delusioni.

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