Una mostra su Dancelli, a quarant'anni da quella Sanremo (Castenedolo, 2010)










Frequentavo la terza elementare nel maggio del '67 e ricordo che il maestro ci assegnò un tema in classe il cui titolo era: "Immaginati giornalista al seguito del Giro d'Italia e scrivi fatti e impressioni".
Un invito a nozze per me, che seguivo tutti i giorni le tappe alla televisione ed ero informatissimo.
Si era appena disputata la tappa con arrivo a Palermo, vinta dall'iridato Rudy Altig su Michele Dancelli, il quale aveva conservato la maglia rosa.
Ero tifoso di Michele e in quel componimento - dopo avere descritto le fasi finali della tappa - immaginavo di intervistarlo, chiedendogli se sarebbe riuscito a vincere il Giro. Sarebbe stata dura - mi rispondeva Dancelli - anche se ci avrebbe provato.
Il maestro Flaviano Croce (un abruzzese, forse tifoso di Taccone) mi assegnò un otto meno che mi lasciò soddisfatto.
Restò un sogno, la vittoria finale del campione bresciano al Giro, al pari di quell'intervista immaginaria.








«Me la ricordo, quella tappa di Palermo vinta da Altig!».
Dopo quarantatrè anni il sogno è diventato realtà, perché Michele Dancelli, proprio lui, mi racconta a ruota libera episodi vecchi quasi di mezzo secolo.
È successo a Castenedolo, domenica 14 marzo, all'inaugurazione della mostra che gli è stata dedicata in occasione del quarantesimo anniversario della vittoria alla Milano-Sanremo.
Ma in realtà il sogno si era concretizzato già due mesi orsono, quando ero stato contattato dalla gentilissima signora Liana, figlia del campione, la quale mi aveva anticipato che sarebbe stata organizzata la mostra e che sarebbe stato esposto il racconto che scrissi per il forum di Cicloweb  : quasi avevo i lucciconi per l'emozione!
Poi era stato Michele in persona a telefonarmi e ci siamo dati un appuntamento che aspettavo da quando avevo i calzoni corti.





Ed eccomi, quindi, in compagnia di mia moglie, nella Sala Civica dei Disciplini, stracolma di gente.
C'è già stato il taglio della fettuccia tricolore e sono cominciati gli interventi.
Un vero e proprio parterre de roi fa da cornice alla manifestazione: Felice Gimondi, Gianni Motta, Italo Zilioli, Dino Zandegù, Francesco Moser con il fratello Aldo, Davide Boifava, Pierfranco Vianelli, Mario Anni, Renato Bongioni, Pierino Gavazzi, Renato Giusti e Giorgio Albani, che quel 19 marzo del '70 era sull'ammiraglia della Molteni, direttore sportivo dello scatenato Michele.
Tutti hanno parole di stima ed affetto per l'avversario di un tempo. Zandegù è divertente come al solito e c'è tanta nostalgia per quel ciclismo.





Mia moglie Rosa (se non ci fosse dovrei inventarla!) mi incoraggia: «Fatti avanti, vai a salutare Dancelli! Lo aspetti da sempre questo momento!».
Mi avvicino al palco e mi presento: Michele mi stringe calorosamente la mano ed invita lo speaker a passarmi il microfono.
E così rievoco l'episodio del Giro dell'Appennino del '67 - quello dello scatto del "mio" campione sulla Bocchetta avvolta nella nebbia - confessando, davanti ad una platea incuriosita dall'intervento di quello sconosciuto, la mia antica passione per Dancelli.
Moser mi ascolta interessato e alla fine ci sono applausi per me.
Con Michele si è rotto il ghiaccio: «Ci vediamo al ristorante», mi dice, preoccupandosi di darmi le indicazioni necessarie e presentandomi alla figlia Liana che ci saluta con entusiasmo: «La vostra presenza oggi - dice - è il regalo più bello. Io non ho visto correre papà ed è attraverso i ricordi e i racconti dei suoi tifosi che rivivo le sue imprese».




Il Presidente e i soci dell'Associazione Culturale Carmagnola, che hanno organizzato l'evento con encomiabile entusiasmo, sono pieni di premure e mi illustrano le loro iniziative.
Renato Giusti mi intrattiene amabilmente raccontandomi di quel Giro dell'Appennino del '61 corso da protagonista e di quando - era lo stesso anno - diede del filo da torcere a Van Looy, vincendo due tappe al Giro d'Italia.
Saluto Motta, Zandegù, Zilioli e i fratelli Moser: il "Dancelli Day" è una vera e propria rimpatriata del ciclismo in bianco e nero.




Poi la festa prosegue a tavola: spiedo bresciano e polenta per i commensali, che si rivelano persone di una simpatia squisita.
Rosa ed io veniamo adottati dagli amici di Michele e coccolati, quasi fossimo ospiti d'onore.
Quasi non riesco a credere di essere lì con Dancelli e con gli altri grandi del passato.
Michele si divide tra i tavoli e si preoccupa: «Ti stai annoiando, forse?».
Ma come è possibile annoiarsi in quella compagnia? C'è chi evoca i ricordi del giovane Michele («quando si allenava, per trovare la forma gli bastava la metà dei chilometri che servivano agli altri»); chi ci rivela i segreti dell'autentico spiedo alla bresciana («quello doc, con gli oséi») chi, ancora, scherza con noi come se ci si conoscesse da sempre. Gente schietta, cordiale, che mette a proprio agio.






Prima del dolce esco a fumare e Michele è anche lui in giardino, che si concede il piacere di una sigaretta in compagnia di un amico tenore.
Si comincia a parlare di ciclismo, di quel Giro dell'Appennino del '72 sfuggitogli per un soffio: «Ero scappato sui Giovi, scollinando per primo. Avevo cento metri di vantaggio ma in fondo alla discesa sono stato ripreso. Quando è scattato Gimondi, toccava a Bitossi andarlo a riprendere, ma lui non si è mosso. E pensare che poteva contare sull'aiuto di Cavalcanti, suo gregario alla Filotex. Ho provato ancora insieme a Lanzafame, ma ero senza compagni di squadra e, dopo avere tenuto Gimondi nel mirino, sono stato costretto a desistere. Bitossi, poi, mi ha anche danneggiato nella volata per il secondo posto».
E si capisce che il comportamento del toscano, quel giorno, non gli è proprio andato a genio. Misteri del ciclismo, anche se Michele mi confessa che secondo lui si è trattato di un vero e proprio giallo: non a caso l'anno seguente Bitossi cambiò casacca, passando alla Sammontana.
E c'è la nostalgia per le volate di quegli anni, quando i "treni" non esistevano: «Ci fosse oggi un Sercu, o anche un Beghetto - dice - vincerebbero a man bassa»; quando non c'erano le radioline e si parlava con il direttore sportivo solo in occasione di una foratura, e tutto era affidato alla fantasia .




Ritorniamo dentro per un brindisi, i ricordi si susseguono.
Michele, ma come andò il duello con Bitossi al Giro del '70, quando lottavate per la conquista della maglia ciclamino? E mi spiega che tutto si decise nella penultima tappa, sul Passo dello Zovo, allora sterrato. Nella discesa l'ammiraglia guidata da Waldemaro Bartolozzi, ds di Bitossi, gli si mise davanti: sollevò un polverone che non si vedeva niente impedendogli di restare con i primi.
E il mondiale di Zolder? Quella volta poteva essere tuo, non credi? «So di essere stato criticato, ma quella volta la responsabilità non fu mia. Quel circuito era troppo piatto, e c'erano tratti con un vento contrario che non ti faceva pedalare a più di venticinque, trenta km all'ora. Non fu facile, da solo. Fossi stato aiutato, le cose sarebbero andate diversamente. Ma ai mondiali di quegli anni io non avevo compagni di squadra».
Non può mancare, nella carrellata dei ricordi, la Sanremo.
Tu ci avevi provato anche l'anno prima, eri arrivato a un passo dal successo. «Nel '69 andai in fuga e venni ripreso sul Poggio - risponde Dancelli - Ebbi ancora la forza si scattare in cima e di passare per primo. Poi partì Merckx e non ci fu più nulla da fare».
Ma nel '70, quando eri in fuga, hai mai avuto timori di non farcela? «No, non ho avuto paura di essere ripreso, specie dopo che era fallito il tentativo di aggancio di De Vlaeminck. L'unico problema era che potessi avere una crisi di fame nel finale: per fortuna non ci fu. Scesi dal Poggio senza correre rischi perché un'eventuale caduta poteva compromettere tutto».
Già, perché la crisi di fame con Dancelli era sempre in agguato. «Come al Giro del '69 - ricorda - quando, nella tappa di Folgaria, andai in crisi sulla salita sterrata di Cima Polsa e bruciai un vantaggio di alcuni minuti, gettando al vento l'occasione di lottare per la vittoria finale».
E nel '68, allora? Mi ricordo una bella tappa al lago di Caldonazzo. «Anche quella volta c'erano il Bondone, sterrato, e il Vetriolo. Vinse Jiménez, ed io feci secondo».





E il tuo rapporto con le crono? Mi facevi sempre soffrire ai Giri d'Italia! «Ma non andavo mica poi tanto male nelle prove a cronometro! Ho disputato diversi Trofei Baracchi piazzandomi bene ed una volta, quando ero in coppia con Mario Anni, fummo i primi degli italiani. Ho partecipato anche a diversi G.P. Cynar. Nei Giri era diverso, perché in una cronometro bisogna "accarezzare" i pedali, nei primi chilometri: il segreto sta nel riposarsi nei due giorni precedenti, cosa che io non facevo mai».
Molti si dimenticano della tua impresa al Tour, di quel secondo posto alle spalle di Merckx nella tappa pirenaica. «Quel giorno c'erano quattro passi da scalare. Merckx era già in fuga e dietro andavano piano. Io ero con Vianelli, che era ben messo in classifica, e scalpitavo. Scalai in solitudine l'Aubisque. Fu quella volta che i francesi mi assegnarono il premio per la combattività».





Straordinario Dancelli! Se fosse nato in Francia, sarebbe stato il beniamino dei tifosi!
Traspare il suo rapporto d'amicizia con Gianni Motta («quando sono con lui, spesso telefoniamo a Merckx») la differenza con Gimondi («lui era un regolarista: come Basso, per intenderci»); la rivalità con Bitossi, forse l'avversario più ostico.
C'è ancora tempo, dopo il pranzo, per rivedere la Mostra, dove viene proiettato il filmato di quella Sanremo di quarant'anni fa, commentata in diretta da Michele.
Scorrono le immagini: i diciotto fuggitivi sul Turchino, il volo dopo Loano e l'ascesa al capo Berta, il tentativo disperato di Leman, il Poggio e, infine, il trionfo di via Roma e le lacrime del dopocorsa. Applauso finale, oggi come allora.
La Coppa spicca in mezzo alla sala, lucida e senza manici perché sono stati strappati via da tifosi troppo irruenti.







Regalano autentiche emozioni le prime pagine dei quotidiani che consacrarono finalmente campione un atleta che lo era già da tempo.
E le maglie di quegli anni, con le tasche davanti; i trofei, il San Silvestro d'oro e il pavé della Freccia Vallone; le foto che ricordano molti dei suoi settantatrè successi; quelle con gli amici, le donne, la famiglia.
E, ancora, le figurine Panini e le biglie di plastica - quelle con le immagini dei ciclisti - con le quali si giocava sulla spiaggia.






Michele è disponibile con tutti, pronto a soddisfare qualsiasi curiosità.
Ci sono le foto che lo ritraggono sui banchi di scuola e Rosa gli chiede conferma se quel bambino sia proprio lui.
Arriva la sorella Margherita, una donna importante nella vita di Michele, che ci regala aneddoti a non finire: storie di ciclisti che alloggiavano in alberghi di terz'ordine frequentati da "escort", escursioni notturne nei vicoli di Genova alla vigilia della Genova-Nizza, con secchiate d'acqua (d'acqua?!?) rovesciate sui malcapitati.




E continuerebbe chissà quanto, la sorella maggiore di Dancelli, se il fratello non le ricordasse che si è fatto tardi e gli amici genovesi devono avviarsi verso casa.
Neanche nel momento del commiato Michele ci lascia soli, accompagnandoci all'auto e indicandoci la strada da seguire per raggiungere l'autostrada.
Una stretta di mano e un abbraccio concludono una giornata memorabile passata in compagnia di un campione straordinario, un uomo autentico, generoso e cordiale che alla soglia delle sessantotto primavere conserva la grinta e la vitalità di quando correva.
È soltanto un arrivederci. E lo sappiamo entrambi, caro Michele.

Mario Silvano ( www. cicloweb.it, 2010)



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