Il Mito del Gavia

 

                                                                              



Del Gavia mi è rimasto impresso il giudizio che ne diede Gian Paolo Ormezzano, oltre quarant’anni  fa: “era e resta la salita più dura del Giro”.
E pensare che quando il giornalista torinese scrisse la sua “Storia del Ciclismo” il Gavia era stato scalato una sola volta, e altre montagne erano state inserite da allora nei tracciati della Corsa Rosa.
Eppure il Gavia sembrava un Moloch, un luogo quasi inaccessibile, una vera e propria montagna incantata.. Una sorta di Monte Olimpo del ciclismo, che solo una volta gli umani avevano osato sfidare.
Un Mito, più che una salita, e quell’unica scalata veniva raccontata – a chi non aveva avuto la fortuna di assistervi- come un’esperienza magica, irripetibile. Lo Stelvio, che aveva conosciuto l’impresa di Coppi, sarebbe stato scalato altre volte; il Bondone, che rese leggendario Gaul, avrebbe incrociato nuovamente il percorso del Giro

                                                                    





Il Gavia no: era stato consegnato alla leggenda in un pomeriggio di Giugno del 1960 e là doveva rimanere, paradigma insuperabile , essenza del ciclismo.
Perché nella vicenda di quel giorno erano simbolicamente racchiusi molti significati . Il coraggio e la sfortuna, certamente. Ma ve ne erano altri, che rendevano epica quella giornata in cui si era ritrovato il gusto del ciclismo delle origini.
Un sapore pionieristico, anacronistico forse, riscoperto proprio mentre si iniziava a viaggiare nello spazio.
C’era Massignan, il giovane eroe solitario che, quasi come un cavaliere d’altri tempi, accettava la sfida con l’ignoto, con quella salita che sembrava dovesse respingere chi avesse osato il confronto.
E Charly Gaul, ultimo vincitore del Giro, che voleva confermarsi come il miglior scalatore del mondo proprio lassù, ai 2621 metri del Gavia
E, ancora, Anquetil e Nencini, impegnati in un duello all’ultimo sangue - il penultimo giorno di gara- su un palcoscenico mozzafiato.





Torriani, da parte sua, aveva contribuito -e non poco- a rendere magica l’attesa di quel giorno.
Vero o falso che fosse, si era sparsa la voce che l’organizzatore del Giro avesse stipulato un’ assicurazione dal contenuto assai particolare. La autovetture che fossero state costrette a fermarsi lungo la salita, infatti, sarebbero state gettate dai burroni per non intralciare la corsa,  così come gli Spartani gettavano dal monte Taigeto i bimbi deformi.


                             


                                              

Era una vecchia strada militare, un sentiero per capre si era detto, e la leggenda voleva che i pastori avessero contribuito a garantirne la transitabilità, dirottando le greggi sui pascoli per non rovinare la sede stradale, che, pur interamente sterrata, era stata sistemata al meglio per il passaggio dei corridori.





Passò infine il Giro, su quella salita, e Massignan fu il primo a scollinare.
La attaccò rabbioso, il giovane della Legnano, e la percorse da solo sino in cima, staccando poco dopo Ponte di Legno un incredibile Van Looy che, dopo essere passato in testa a tre GPM, aveva cullato l’ambizione – lui, gran velocista !- di domare il gigante alpino.
Ma la montagna, per la prima volta violata dal Giro, si vendicò di chi aveva osato tanto: in discesa Imerio forò una volta, poi un’altra, e un’altra ancora. Gaul, secondo in vetta, lo raggiunse in discesa , e vinse a Bormio per quattordici miseri secondi. Quello del lussemburghese sarà solo un nome – prestigioso, come d’altronde meritava la tappa- sull’albo d’oro, perché l’eroe di quel giorno fu lo scalatore vicentino
Il Gavia lo fece piangere e quel secondo posto gli suonava beffardo, ma da allora il suo nome fu legato indissolubilmente a quella salita..
Contava solo passare per primo lassù, ecco cos’era importante, e lui c’era riuscito.





Non ci fu bisogno di sacrificare macchine alla montagna. Per alcuni, i timori della vigilia si rivelarono eccessivi. C’era sì neve ai lati della strada e non si contarono i tubolari sostituiti , quel giorno, ma non era neppure la prima volta che si correva in quelle condizioni, e la pioggia gelida che cadeva in cima sembrò poca cosa..


                               


                                                


C’era stata qualche spinta di troppo, qualche alleanza che sapeva di tradimento ( un Efialte lo si trova sempre), ed una moto, quella che avrebbe dovuto seguire Massignan nella discesa su Bormio, che non ne volle proprio sapere di partire. Forse era solo una candela sporca, ma ci fu chi parlò di sabotaggio.
Anquetil difese il suo rosa in salita e Nencini fu grande protagonista in discesa, ma non bastò.
Tagliava le curve, il toscano ,e neanche li vedeva i precipizi, ma il suo coraggio non fu premiato.






Il Gavia aveva lasciato il segno, insomma, e nella memoria storica dei suiveurs di quegli anni si conquistò un posto di prim’ordine, un’ icona di un ciclismo leggendario, un ricordo incancellabile che si voleva rimanesse tale.
Quando fu la volta delle Tre Cime di Lavaredo , ci sembrò che quello fosse il massimo. I più anziani ci zittivano:”Eh, ma non hai visto il Gavia, non hai visto Massignan!”.
Ad almeno due generazioni di campioni venne risparmiata quell’ascesa e più il tempo passava restava solo lo spazio per i ricordi.




Poi -ed erano passati quasi trent’anni dalla prima volta- il Gavia ritornò .

La strada era stata in  gran parte asfaltata, nel frattempo, ma era rimasta arcigna come sempre.

Ed era un anno olimpico anche il 1988, perché il Gavia non è salita che si sprechi ad ogni occasione.
Torriani, quella volta, rischiò grosso, e ci fu un momento in cui si pentì di essere ritornato lassù.
Nevicava sul Gavia -gli era stato detto- ma si poteva passare.




Fu un olandese in maglia ciclamino a domare la salita. Solo una maglietta a proteggerlo dalla neve ghiacciata, in un paesaggio polare. Van der Velde, superstite di una fuga partita da lontano, transitò per primo in vetta , coperto di neve. Come un guerriero antico aveva affrontato il nemico senza armatura, con una spavalderia che il Gavia non gli avrebbe perdonato.

                                                           




 
Per gli altri non fu diverso, ma arrivare in cima alla salita voleva dire , qual giorno, cercare una pausa ristoratrice nella tormenta di neve.
Si fermarono alla spicciolata: chi a indossare mantelline, chi a ricevere massaggi ai polpacci ed alle mani. Qualcuno , in mancanza di meglio, ricorse ai vecchi giornali, perché la discesa su Bormio era una stilettata di giaccio nel torace.
Durante l’ascesa qualcuno pensò anche di boicottare la tappa e il patron del Giro, almeno per un attimo, valutò se stoppare la corsa lassù. Ma non era possibile, ed ai corridori venne inferto l’ultimo supplizio.






I più previdenti erano attesi da thermos di the bollenti. Come l’americano Hampsten: lui e i suoi compagni venivano dal Colorado, e sapevano che la montagna andava rispettata. Prima della vetta indossò abiti asciutti e caldi e si tuffò nella discesa
Quel tepore durò solo un attimo, perché il gelo si impadronì del suo corpo.
Aveva le gambe ricoperte di ghiaccio, ma lui e Breukink, impavido olandese, si fecero compagnia in discesa .
Vinse l’arancione, quel giorno, ed Hampsten conquistò la maglia rosa strappandola al nostro Chioccioli.





All’arrivo si assistette a scene che neanche sul Bondone trent’anni prima.
Congelati, collassati, facce da spavento. C’era chi veniva avvolto da coperte , chi veniva sorretto appena sceso dalla bici, se solo fosse riuscito a scendere.
Perchè le mani dei più si erano rattrappite e stringevano il manubrio come se la discesa dovesse continuare chissà quando.





Van der Velde arrivò tra gli ultimi, a quasi quarantasette minuti : in discesa aveva cercato il conforto dentro a un camper, e ci sarebbe rimasto tutta la notte, se solo avesse potuto.
Alcuni – pochi, in verità- si ritirarono e chi arrivò fuori tempo massimo fu riammesso in gara, data l’assoluta eccezionalità della situazione.





Noi, che quel giorno l’avevamo sognato sin da bambini, guardavamo le immagini della telecronaca da una vecchia televisione in bianco nero, e sembrava di essere tornati indietro nel tempo di chissà quanti anni..
E quando fecero vedere la registrazione di quello che era accaduto sulla cima , eravamo increduli e per giorni non parlavamo d’altro con chi ci capitava a tiro.





Non si scherza, con il Gavia.
Che, con gli anni , venne interamente asfaltato e cominciò a rabbonirsi. Non avrebbe divorato – come un Crono dei tempi moderni- quegli omini che si arrampicavano sui tornanti.
Dieci  volte è salito il Giro lassù e, per una sorta di maledizione, chi passa per primo sul Gavia non vince il Giro.
E’ il prezzo che quella cattedrale della montagna, come la definì Bruno Raschi, pretende

E anche se il Giro ha affrontato altre salite – sterrate e non- il Mito del Gavia, nato in giorno di Giugno del 1960 e confermato quasi trent’anni dopo, è duro a morire.

A chi ama il ciclismo fa ancora venire la pelle d’oca perché – parafrasando Neruda – di salite ce ne sono anche di più alte e di più belle ma il Gavia, almeno per noi, è la regina di tutte.

Mario Silvano

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